Non cessò di preoccuparsi dell’atmosfera e di altri fastidi fino al momento in cui si rese conto di essere solo.
I nildor erano spariti. E così pure Na-sinisul. La nebbia avvolgeva ogni cosa. Sbigottito, Gundersen spostò all’indietro il nastro della sua memoria e vide che doveva essere rimasto separato dai suoi compagni da parecchi minuti, senza dare particolare peso alla cosa. Ormai potevano essere molto avanti a lui, su qualche altra strada.
Non gridò.
Si abbandonò dapprima all’inevitabile, e si lasciò cadere sulle ginocchia per riposare. Affondò la faccia fra le mani, poi appoggiò le nocche sulla terra fredda e lasciò dondolare la testa, inalando l’aria. Sarebbe stato facile stendersi completamente e perdere coscienza. Forse l’avrebbero trovato la mattina seguente, addormentato. Oppure congelato. Fece uno sforzo per alzarsi, e ci riuscì al terzo tentativo. — Srin’gahar? — disse. Lo sussurrò, piuttosto, in un intimo appello di aiuto.
La testa che gli girava per la spossatezza, corse avanti, incespicando, scivolando, urtando alberi, intrappolando i piedi nel sottobosco. Vide alla sua sinistra quello che era senza dubbio un nildor, ma quando toccò i suoi fianchi li trovò umidi e gelidi, e si rese conto che era solo un masso. Si staccò violentemente da esso. Appena più avanti, si presentò una fila di massicce forme: i nildor in marcia? — Aspettate! — gridò, e corse, e provò come una scossa alle gambe immergendosi nelle gelide acque di un ruscello. Cadde nell’acqua, sulle mani e sulle ginocchia. Strisciò con la forza della disperazione fino alla riva opposta e si lasciò andare a terra, riconoscendo ora le forme scure e indistinte come quelle di alberi bassi e larghi, sferzati dal vento. Va bene, pensò. Mi sono perso. Aspetterò qui fino al mattino. Si accoccolò, cercando di strizzare l’acqua fredda dai vestiti.
Arrivò la notte, nero al posto del grigio. Cercò in cielo le lune e non ne scorse nessuna. Una sete terribile lo consumava, e cercò di tornare al ruscello, ma non riuscì a trovare neppure questo. Le dita gli erano diventate insensibili, le labbra screpolate. Ma scoprì un’isola di calma all’interno della sua pena e si aggrappò a essa, dicendosi che nulla di quanto era accaduto era veramente pericoloso, e che tutto era in qualche maniera necessario.
Dopo un numero sconosciuto di ore, Srin’gahar e Na-sinisul vennero da lui.
Per prima cosa Gundersen sentì il tocco morbido della proboscide di Srin’gahar contro la guancia. Si ritrasse e si appiattì a terra, rilassandosi lentamente quando si rese conto di cosa lo aveva sfiorato. Sopra di lui, il nildor disse: — È qui.
— Vivo? — chiese Na-sinisul, una voce cupa proveniente da una distanza cosmica, avvolta in strati di nebbia.
— Vivo. Bagnato e freddo. Edmundgundersen, riesci ad alzarti?
— Sì. Sto bene, credo. — Si sentiva pieno di vergogna. — Mi avete cercato per tutto questo tempo?
— No — disse tranquillamente Na-sinisul. — Abbiamo proseguito fino al villaggio. Poi abbiamo discusso della tua assenza. Non sapevamo se ti eri perso o ti eri allontanato volontariamente. Poi Srin’gahar e io siamo tornati. Volevi abbandonarci?
— Mi sono perso — disse tristemente Gundersen.
Neppure ora gli venne permesso di montare sul nildor. Procedette faticosamente fra Srin’gahar e Na-sinisul, afferrando la spessa pelliccia del sulidor o appoggiandosi all’anca liscia del nildor ogni volta che sentiva venir meno le forze, o trovava difficoltà a camminare nel buio assoluto. Dopo un tempo indefinito, delle luci apparvero, un pallido bagliore di lanterne che filtrava latteo attraverso la nebbia nera. Confusamente Gundersen vide le squallide capanne di un villaggio sulidoror. Senza attendere l’invito, si infilò nella più vicina delle strutture di legno. Aveva le pareti dritte, un odore di muffa, e festoni di fiori secchi e fasci di pelli di animali appese alle travi. Parecchi sulidoror seduti lo guardarono senza alcuna traccia di interesse. Gundersen si scaldò e asciugò i vestiti; qualcuno gli portò una ciotola di zuppa dolce e densa, e poco dopo gli vennero offerte strisce di carne secca, difficili da masticare ma straordinariamente saporite.
Dozzine di sulidoror andavano e venivano. Una volta, quando la tenda che chiudeva la porta rimase aperta, scorse i suoi nildor seduti appena fuori. Un animaletto dal muso feroce, color bianco nebbia e rugoso, gli si avvicinò e lo esaminò con diffidenza: qualche bestia del nord, che i sulidoror tenevano come animale domestico, pensò Gundersen. La creatura mordicchiò gli abiti ancora umidi ed emise un verso stridulo. Le sue orecchie pelose si contrassero; le zampine dalle dita sottili esplorarono la manica; la lunga coda prensile si avvolgeva e svolgeva. Poi balzò in grembo a Gundersen, gli afferrò un braccio con zampe veloci e gli addentò la carne. Il morso non fu più doloroso di quello di una zanzara, ma Gundersen si chiese quale tremenda infezione aliena avrebbe potuto essersi preso. Tuttavia non fece alcun movimento per allontanare l’animaletto. D’improvviso una grande zampa di sulidor discese, con gli artigli ritratti, e scaraventò l’animale dall’altra parte della capanna. La forma massiccia di Na-sinisul si accoccolò accanto a Gundersen; l’animale scacciato squittì di rabbia in un angolo lontano.
Na-sinisul disse: — Il munzor ti ha morso?
— Non profondamente. È pericoloso?
— Non ti verrà alcun male — disse il sulidor. — Puniremo l’animale.
— No, vi prego, stava solo giocando.
— Deve imparare che gli ospiti sono sacri — disse Na-sinisul fermamente. Si chinò verso di lui. Gundersen poté sentire il fiato che puzzava di pesce del sulidor. La bocca si spalancò, mostrando grandi zanne. A bassa voce, Na-sinisul disse: — Il villaggio ti ospiterà fino a quando non sarai pronto a proseguire. Io devo andare con i nildor, fino alla montagna della rinascita.
— È quella grande montagna rossa a nord?
— Sì. Il loro momento è molto vicino, e così pure il mio. Li assisterò nella loro rinascita, poi sarà il mio turno.
— Anche i sulidoror ricevono la rinascita, dunque?
Na-sinisul parve sorpreso. — Come potrebbe essere altrimenti?
— Non so. Conosco pochissimo di questo argomento.
— Se i sulidoror non rinascessero — disse Na-sinisul — i nildor non potrebbero rinascere. Una cosa è inseparabile dall’altra.
— In che senso?
— Se non ci fosse il giorno, potrebbe esserci la notte?
La risposta era troppo enigmatica. Gundersen cercò di ottenere un chiarimento, ma Na-sinisul era venuto per parlare di altre faccende. Evitando le domande del terrestre, il sulidor disse: — Mi dicono che sei venuto nel nostro paese per parlare con uno della tua gente, l’uomo Cullen. È così?
— Sì. È una delle ragioni per cui sono qui, cioè.
— L’uomo Cullen vive tre villaggi a nord e uno a ovest da qui. È stato informato del tuo arrivo, e ti manda a chiamare. Dei sulidoror di questo villaggio ti condurranno da lui, quando vorrai andare.
— Partirò domani mattina — disse Gundersen.
— Devo avvisarti di una cosa, prima. L’uomo Cullen ha trovato rifugio fra noi, e perciò è sacro. Non può esservi speranza di portarlo via dal nostro territorio e consegnarlo ai nildor.
— Chiedo solo di parlare con lui.
— Questo può avvenire. Ma il tuo patto con i nildor ci è noto. Devi ricordare che puoi tener fede a quel patto soltanto violando la nostra ospitalità.