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Gundersen non diede risposta alcuna. Non vedeva come poteva fare una promessa del genere a Na-sinisul senza rinnegare contemporaneamente quella fatta al molte-volte-nato Vol’himyor. Perciò si aggrappò al suo originale patto interiore: avrebbe parlato con Cedric Cullen, poi avrebbe deciso come agire. Ma lo disturbava che i sulidoror fossero già a conoscenza dei suoi veri scopi nel cercare Cullen.

Na-sinisul lo lasciò. Gundersen cercò di dormire, e per un po’ cadde in un dormiveglia inquieto. Ma le lampade rimasero accese tutta notte nella capanna, e grandi sulidoror andavano e venivano rumorosamente intorno a lui, e appena fuori dalla capanna i nildor tennero una lunga discussione di cui Gundersen riuscì ad afferrare solo alcune sillabe incomprensibili. Una volta Gundersen si svegliò trovando un piccolo Munzor dalle lunghe orecchie che gli sedeva sul petto, squittendo. Più tardi, tre sulidoror fecero a pezzi una carcassa sanguinante proprio accanto al punto dove Gundersen giaceva. I rumori della carne che veniva strappata lo svegliarono brevemente, ma tornò a scivolare nel suo sonno inquieto, solo per svegliarsi quando un litigio furibondo scoppiò circa la divisione della carne. Quando arrivò l’alba, grigia e tetra, Gundersen si sentiva più stanco che se non avesse dormito per niente.

Gli venne data la colazione. Due giovani sulidoror, Se-holomir e Yi-gartigok, annunciarono che erano stati scelti per scortarlo al villaggio dove si trovava Cullen. Na-sinisul e i cinque nildor si preparavano a partire per la montagna della rinascita. Gundersen disse addio ai suoi compagni di viaggio.

— Vi auguro la gioia della rinascita — disse, e guardò le grandi forme sparire fra la nebbia.

Poco dopo, si rimise anche lui in cammino. Le sue nuove guide erano taciturne e distanti: tanto meglio, perché non desiderava fare conversazione, mentre avanzava faticosamente in quella terra ostile. Aveva bisogno di pensare. Non era affatto sicuro di quello che avrebbe fatto dopo aver visto Cullen; il suo piano originale di sottoporsi alla rinascita, che era sembrato così nobile in astratto, adesso gli sembrava pura follia… non solo a causa di quello che era avvenuto a Kurtz, ma perché lo vedeva come uno sconfinamento, una usurpazione dei riti di un’altra specie. Andare alla montagna della rinascita, sì. Soddisfare una curiosità. Ma sottomettersi alla rinascita? Per la prima volta fu incerto se farlo. Cominciava a sospettare che alla fine si sarebbe tirato indietro, senza rinascere.

La tundra della zona di confine stava lasciando il posto a una foresta che sembrava una curiosa inversione: alberi che crescevano più grandi, a quelle latitudini nordiche. La vegetazione nana e contorta che si era lasciato alle spalle era nativa della giungla, e si era adattata malamente alla nebbia; qui crescevano alberi genuinamente nordici: alti, dai grossi tronchi con una spessa corteccia corrugata e rade foglie simili ad aghi. La nebbia nascondeva i rami più alti. Attraverso questa fredda e nebbiosa foresta correvano animali magri e ossuti, dalla pelliccia ispida e dai lunghi nasi, che sbucavano da buchi nel terreno e si arrampicavano veloci sui tronchi degli alberi, evidentemente alla ricerca di roditori e uccelli che vivevano sui rami. Ampi tratti di terreno erano ricoperti di neve, anche se l’estate era vicina. La seconda sera di viaggio ci fu una grandinata, portata da una nuvola ghiacciata che giunse loro addosso trascinata da un vento sibilante. Muti e tetri, i compagni di Gundersen non interruppero la marcia, e Gundersen fu costretto contro voglia a seguirli.

La nebbia di solito era poco fitta al livello del terreno, e spesso non ce n’era per niente per un’ora o più, ma si inspessiva in alto, in un velo ininterrotto, che nascondeva il cielo. Gundersen si abituò al terreno brullo, ai rami angolosi e spogli degli alberi, all’umidità gelida e penetrante, così diversa da quella della giungla. Giunse a trovare della bellezza in quel paesaggio spoglio. Quando tentacoli di nebbia si muovevano come fantasmi su un grigio ruscello, quando qualche animale peloso si lanciava di corsa su una distesa di ghiaccio, quando un grido roco rompeva l’incredibile silenzio, quando d’improvviso i tre viaggiatori sbucavano su un bianco paesaggio invernale, vuoto e sferzato dal vento, Gundersen provava uno strano genere di piacere. Nel paese delle nebbie, pensò, il tempo è sempre quello appena dopo l’alba, quando tutto è nuovo e pulito.

Il quarto giorno Se-holomir disse: — Il villaggio che cerchi si trova dopo la prossima collina.

13

Era un insediamento di discrete dimensioni, quaranta capanne o più, costruite lungo due file, fiancheggiate da una parte da un bosco di altissimi alberi, dall’altra da un lago dalla superficie argentea. Gundersen giunse al villaggio dalla parte degli alberi, con il lago che scintillava fra i tronchi. Una spruzzata di neve cadeva attraverso l’aria immobile. La nebbia era alta in quel momento, e si addensava in un soffitto impenetrabile a circa 500 metri di altezza.

— L’uomo Cullen…? — chiese Gundersen.

Cullen giaceva in una capanna accanto al lago. Due sulidoror sorvegliavano l’ingresso, ma si fecero da parte a una parola di Yi-gartigok; altri due sulidoror si trovavano ai piedi del giaciglio di rami e pelli su cui riposava Cullen. Anch’essi si fecero da parte, rivelando un guscio sfatto di uomo, una larva, una brace spenta.

— Sei venuto a prendermi? — chiese Cullen. — Be’, Gundy, sei arrivato tardi.

I capelli dorati di Cullen erano diventati bianchi e ispidi: un intrico attraverso cui apparivano chiazze di cranio pallido. I suoi occhi, un tempo di un pallido verde liquido, erano adesso fangosi e spenti, con delle striature rosse nella sclera ingiallita. La sua faccia era una maschera di pelle sugli occhi, e la pelle era scagliosa e ruvida. Una coperta lo copriva dal petto in giù, ma la magrezza delle braccia indicava come il resto del corpo fosse presumibilmente eroso in maniera analoga. Del vecchio Cullen ben poco sembrava rimanere, a parte la voce gentile e il sorriso allegro, adesso grottesco in quella faccia devastata. Sembrava un uomo di cento anni.

— Da quanto tempo sei in queste condizioni? — chiese Gundersen.

— Due mesi. Tre. Non so. Il tempo qui si scioglie, Gundy. Ma non c’è possibilità di ritorno per me, adesso. Qui mi fermo. È la fine.

Gundersen si inginocchiò accanto al giaciglio del malato. — Senti male? Posso darti qualcosa?

— Nessun male — disse Cullen. — Nessuna medicina. È la fine.

— Cos’hai? — chiese Gundersen, pensando a Dykstra e alla sua donna, divorati da larve aliene in una pozza di fanghiglia, pensando a Kurtz, sofferente e trasfigurato alle Cascate di Shangri-la, pensando al racconto di Seena su Gio Salamone trasformato in cristalli. — Una malattia indigena? Qualcosa che hai contratto qui?

— Niente di esotico — disse Cullen. — Penso che si tratti della vecchia corruzione interna, dell’antico nemico. Il cancro, Gundy. Il cancro. All’intestino. Le tenaglie del cancro sono dentro le mie budella.

— Allora soffri?

— No — disse Cullen. — Il cancro si muove adagio. Un morso qui, un morso là. Ogni giorno resta un po’ meno di me. Certi giorni ho la sensazione che non resti proprio niente di me. Questo è uno dei giorni buoni.

— Ascolta — disse Gundersen. — Posso portarti lungo il fiume, fino alla stazione di Seena nel giro di una settimana. Lei deve avere un kit medico, un tubetto di anticancro. Non sei così malconcio da non poter bloccare il male, se ci muoviamo in fretta; poi potremo mandarti sulla Terra per un rinnovamento molecolare, e…

— No. Lascia perdere.

— Non essere assurdo! Non viviamo nel Medio Evo, Ced. Anche se hai il cancro, non è una buona ragione per startene steso in una capanna puzzolente, ad aspettare la morte. I sulidoror ti possono preparare una barella in cinque minuti. Ci penso io. Poi…

— Non arriverei mai da Seena, e tu lo sai — disse a bassa voce Cullen. — I nildor mi prenderebbero non appena fuori del paese delle nebbie. Lo sai, Gundy. Tu devi saperlo.