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Rimase in silenzio.

Gundersen, dopo una pausa, disse: — Ma perché non rischiare di tornare? Qualsiasi cosa i nildor vogliano farti, non può essere brutto come starsene seduti dentro una capanna sulidoror a morire di cancro.

Cullen non rispose.

— E anche se ti dessero una droga per cancellare i ricordi? — chiese Gundersen. — Non è meglio perdere un pezzo del passato che l’intero futuro? Se solo volessi tornare, Ced, e lasciarti curare…

— Il tuo guaio, Gundy, è che sei troppo logico — disse Cullen. — Così ragionevole e razionale! C’è un’altra fiasca di vino dentro. Ti spiace portarmelo?

Gundersen passò accanto ai sulidoror accovacciati ed entrò nella capanna, frugò nel buio pieno di odori per qualche momento, cercando il vino. Mentre cercava, la soluzione per Cullen gli si presentò da sola: invece di portare Cullen dalla medicina, avrebbe portato la medicina da Cullen. Avrebbe abbandonato il suo viaggio per la montagna della rinascita, almeno temporaneamente, sarebbe tornato alle Cascate di Shangri-la per prendergli una dose di anti-carcinoma. Forse non era troppo tardi per fermare il cancro. In seguito, tornato sano, Cullen avrebbe potuto affrontare i nildor oppure no, come preferiva. Ciò che avverrà fra lui e i nildor, si disse Gundersen, non sarà cosa che mi riguardi. Considero il mio patto con Vol’himyor cancellato. Ho detto che avrei riportato Cullen solo con il suo consenso, e chiaramente lui non vuole venire di sua volontà. Perciò il mio compito adesso è solo di salvargli la vita. Poi potrò andare alla montagna.

Trovò il vino, e uscì.

Cullen era supino nella culla, il mento sul petto, gli occhi chiusi, il respiro lento, come se il lungo monologo l’avesse esaurito. Gundersen non lo disturbò. Appoggiò il vino, e si allontanò, passeggiando per più di un’ora, pensando, senza arrivare ad alcuna conclusione. Poi tornò. Cullen non si era mosso. — Dorme ancora? — chiese Gundersen ai sulidoror.

— È il lungo sonno — rispose uno di essi.

14

La nebbia si addensò, portando con sé gemme di ghiaccio che pendevano da ogni albero, da ogni capanna; e sulla riva del lago di piombo Gundersen cremò il corpo devastato di Cullen con una lunga, feroce fiammata della torcia a fusione, mentre i sulidoror guardavano, silenziosi e solenni. La terra sfrigolò un poco, quando ebbe finito, e la nebbia mulinò follemente quando l’aria fredda si precipitò a riempire la zona di calore creata dalla torcia. Dentro la capanna c’erano pochi oggetti privi di importanza. Gundersen frugò fra di essi, sperando di trovare un diario, un memoriale, qualsiasi cosa portasse l’impronta dell’anima e della personalità di Cedric Cullen. Ma trovò solo qualche strumento arrugginito, una scatola di insetti e lucertole disseccate, vestiti stinti. Lasciò queste cose dove le aveva trovate.

I sulidoror gli portarono una cena fredda, lo lasciarono mangiare indisturbato, seduto sulla culla di legno, fuori dalla capanna di Cullen. Venne il buio, e si ritirò nella capanna per dormire. Se-holomir e Yi-gartigok si misero di guardia all’ingresso, anche se non aveva chiesto loro di stare lì. Non disse niente. La sera presto, si addormentò.

Stranamente, sognò non Cullen appena morto, ma Kurtz ancora vivo. Vide Kurtz attraversare a piedi il paese delle nebbie, il vecchio Kurtz, non ancora trasformato nella sua condizione presente: infinitamente alto, pallido, gli occhi che bruciavano nel cranio, illuminati da una strana conoscenza. Kurtz portava un bastone da pellegrino e marciava instancabile nella nebbia. Lo accompagnava, senza essere veramente con lui, una processione di nildor, i corpi verdi ricoperti di fango rosso vivo; si fermavano ogni volta che Kurtz si fermava, e si inginocchiavano accanto a lui, e di tanto in tanto lui li lasciava bere da una borraccia a forma di tubo, che portava con sé. Ogni volta che Kurtz offriva questa borraccia ai nildor, lui e non loro subiva una trasformazione. Le sue labbra si univano in un liscio sigillo; il suo naso si allungava; gli occhi, le dita delle mani e dei piedi, le gambe, cambiavano e cambiavano ancora. Fluido e mutevole, Kurtz non manteneva la forma a lungo. A un certo stadio del viaggio divenne un sulidor sotto tutti gli aspetti tranne uno: la testa dall’alta calotta calva che sormontava il massiccio corpo peloso. Poi la pelliccia si sciolse, gli artigli si rattrappirono, e prese un’altra forma: quella di un essere agile e dai lunghi balzi, rapace e veloce, con gomiti dalla doppia articolazione e lunghe gambe sottili. Altre trasformazioni seguirono. I nildor intonavano inni di adorazione, in spesse, monotone matasse di grigio suono. Kurtz si inchinava, salutava, sorrideva benevolmente. Faceva passare la sua borraccia, che non si vuotava mai. Subiva cicli incessanti di stupefacenti metamorfosi. Dallo zaino estraeva doni che distribuiva fra i nildor: torce, coltelli, libri, cubi-lettera, computer, statue, organi a colori, farfalle, fiaschi di vino, sensori, moduli di trasporto, strumenti musicali, perline, stampe antiche, medaglioni sacri, cesti di fiori, bombe, razzi di segnalazione, scarpe, chiavi, giocattoli, lance. Ciascun dono produceva sospiri estatici e grugniti e muggiti di gratitudine da parte dei nildor; saltavano per la gioia intorno a lui, sollevando con le proboscidi i loro nuovi tesori, mostrandoseli eccitati l’un l’altro. “Vedete?” gridava Kurtz. “Io sono il vostro benefattore. Sono vostro amico. Sono la resurrezione e la vita.” Arrivarono al luogo della rinascita, non una montagna nel sogno di Gundersen, ma piuttosto un abisso, scuro e profondo, ai cui bordi i nildor si radunarono, in attesa. E Kurtz, il cui corpo sembrava tremolare e lampeggiare per la velocità delle metamorfosi: ora fornito di corna, ora coperto di scaglie, ora avvolto dalle fiamme, avanzò mentre i nildor lo acclamavano e gli dicevano: “Questo è il luogo, la rinascita sarà tua”, e lui si gettò nell’abisso, che lo avvolse in una notte assoluta. Poi dalle profondità del pozzo si levò un singolo grido prolungato, un acuto lamento di terrore e di costernazione, così spaventoso che Gundersen si svegliò, e giacque sudato e tremante per ore, aspettando l’alba.

La mattina, si mise lo zaino in spalla e si preparò a partire. Se-holomir e Yi-gartigok vennero da lui; e uno dei sulidoror disse: — Dove andrai ora?

— A nord.

— Dobbiamo venire con te?

— Vado da solo — disse Gundersen.

Sarebbe stato un viaggio difficile, forse pericoloso, ma non impossibile. Aveva strumenti per orientarsi, concentrati di cibo, una riserva di energia e cose del genere. Aveva la determinazione necessaria. Sapeva che i villaggi sulidoror lungo il cammino gli avrebbero offerto ospitalità, se ne avesse avuto bisogno. Ma sperava non fosse necessario. Era stato scortato abbastanza: prima da Srin’gahar, poi da vari sulidoror; sentiva di dover terminare quel pellegrinaggio senza una guida.