Il buio completo giunse prima che potesse raggiungerla. Una spessa coltre di nebbia si era stesa su ogni cosa. Gundersen si trovava a circa metà dell’ascesa. Il sentiero in quel punto si allargava sul fianco della montagna, creando un ampio spazio coperto dalle fragili scaglie di una pietra pallida, e contro il fianco della montagna Gundersen vide uno squarcio nero, una grande V rovesciata, l’ingresso di quella che doveva essere una gigantesca caverna. Tre nildor giacevano addormentati alla sinistra dell’ingresso, e cinque sulidoror, sulla destra, parevano impegnati in una discussione.
Si nascose dietro un masso, sbirciando con cautela l’ingresso della caverna. I sulidoror entrarono, e per più di un’ora non accadde niente. Poi li vide emergere, svegliare uno dei nildor e guidarlo all’interno. Passò un’altra ora prima che tornassero a prendere il secondo. Dopo un po’ fu la volta del terzo. Ormai la notte era inoltrata. La nebbia, costante compagna del suo viaggio, si avvicinò e lo avvolse. Le creature simili a pipistrelli dal grande becco calarono dalle regioni superiori della montagna come marionette appese ai fili, lanciando strida e svanendo nella nebbia sottostante, per tornare pochi momenti dopo, in un’ascesa altrettanto veloce. Gundersen era solo. Questo era il momento adatto per sbirciare nella caverna, ma non riuscì a trovare il coraggio. Esitò, tremando, incapace di muoversi. I suoi polmoni erano soffocati dalla nebbia. Non riusciva a vedere nulla in nessuna direzione, adesso; anche gli esseri simili a pipistrelli erano invisibili, ridotti a semplici grida distorte dall’effetto Doppler, mentre salivano e scendevano. Si sforzò di ritrovare una parte della sicurezza che aveva provato il giorno successivo alla morte di Cullen, quando era partito senza guida in quella terra invernale. Con uno sforzo cosciente, ritrovò alla fine un brandello di quel vigore.
Andò all’imboccatura della caverna.
Vide solo buio all’interno. Né sulidoror né nildor apparivano all’ingresso. Fece un passo, cauto. La caverna era fredda, ma di un freddo secco, molto più piacevole del gelo intriso di nebbia all’esterno. Estraendo la torcia a fusione, arrischiò un rapido lampo di luce, e scoprì di trovarsi al centro di un’immensa camera, il cui soffitto altissimo si perdeva nell’ombra. Le pareti della camera erano una fantasia barocca di pieghe e sporgenza, contrafforti e torri di pietra lucida e trasparente, che scintillò come vetro nell’istante in cui la luce la colpì. Proprio davanti a lui, fiancheggiato da due ali ondulate di pietra, spalancate come tende solide, c’era un passaggio, grande abbastanza per Gundersen, ma probabilmente piuttosto difficoltoso per i nildor che erano venuti prima di lui.
Si avviò verso di esso.
Altri due lampi della torcia lo fecero arrivare. Poi proseguì a tentoni, tenendosi vicino a un fianco dell’apertura. Il corridoio piegava bruscamente a sinistra, e dopo circa venti passi piegava altrettanto bruscamente dalla parte opposta. Superando la seconda curva, una fievole luce accolse Gundersen. Una formazione fungoide verde pallido che cresceva sul soffitto forniva un minimo di illuminazione. Si sentì sollevato, ma anche vulnerabile: adesso poteva vedere, ma anche essere visto.
Il corridoio era circa due volte la grandezza di un nildor e tre volte l’altezza, e il soffitto formava un arco acuto, in cui crescevano i fungoidi. Si addentrava per quella che sembrava una distanza infinita nella montagna. Ai lati si aprivano camere e passaggi secondari.
Avanzò e sbirciò nella prima di queste camere. Conteneva qualcosa di grande, strano, e apparentemente vivo. Sul pavimento di nuda pietra giaceva una massa di carne rosa, informe e immobile. Gundersen distinse arti corti e grossi e una coda avvolta strettamente sopra larghi fianchi; non riuscì a vedere la testa, né alcun segno che gli permettesse di associarla a qualche specie conosciuta. Avrebbe potuto essere un nildor, ma non era grande abbastanza. Mentre guardava, si gonfiò respirando, e si sgonfiò lentamente. Passarono molti minuti prima che inalasse un altro respiro. Gundersen proseguì.
Nella cella successiva trovò una massa analoga di carne indefinibile. Nella terza un’altra. La quarta cella, sul lato opposto del corridoio, conteneva un nildor della specie occidentale, profondamente addormentato. La cella successiva era occupata da un sulidor che giaceva, stranamente, sulla schiena, con le membra irrigidite verso l’alto. La cella successiva conteneva un sulidor nella stessa posizione, ma peraltro sorprendentemente diverso, poiché si era spogliato della spessa pelliccia e giaceva nudo, rivelando tremendi muscoli sotto la pelle grigia e lustra. Proseguendo Gundersen arrivò a una camera che ospitava qualcosa di ancora più bizzarro: una creatura che possedeva gli aculei, la proboscide, le zanne di un nildor, ma braccia, gambe e tronco di un sulidor. Che agglomerato da incubo era quello? Gundersen rimase davanti a esso a lungo, stupefatto, cercando di comprendere come la testa di un nildor avesse potuto essere innestata al corpo di un sulidor. Si rese conto che non poteva trattarsi di un innesto; il dormiente partecipava semplicemente delle caratteristiche di entrambe le razze in un singolo corpo. Un ibrido? Una fusione genetica?
Non lo sapeva. Ma adesso sapeva che quella non era una stazione di passaggio nella strada verso la rinascita. Quello era il luogo della rinascita medesima.
Molto davanti a lui, delle figure emersero da uno dei corridoi laterali e attraversarono quello principale: due sulidoror e un nildor. Gundersen si appiattì contro una parete e rimase immobile fino a quando non sparirono alla vista, in una della camere. Poi proseguì.
Non vide altro che miracoli. Era in un giardino di bizzarrie, dove nessuna barriera esisteva.
Vide una massa spugnosa e rotonda di morbida carne rosa, con un unico tratto distintivo che sporgeva da essa: la grossa coda di un sulidor.
Vide un sulidor con tutta la sua pelliccia, con tronco e orecchie di nildor.
Vide carne che non era né di sulidor né di nildor, ma viva e passiva, come una cosa in attesa della mano dello scultore.
Vide un’altra cosa che assomigliava a un sulidor le cui ossa si fossero fuse.
Vide un’altra cosa che assomigliava a un nildor che non avesse mai avuto ossa.
Vide proboscidi, aculei, zanne, artigli, code, zampe. Vide pellicce e pelle liscia. Vide carne scorrere alla ricerca di nuove forme. Vide camere buie, illuminate solo dalla luminescenza dei fungoidi, in cui non esisteva una netta distinzione fra specie.
Le leggi della biologia sembravano sospese in quel luogo. Non era una banale sollecitazione dei geni, Gundersen lo sapeva. Sulla Terra qualsiasi tecnico da salone genetico era in grado di ridisegnare il plasma genetico di un organismo con qualche preciso colpo di ago e poche iniezioni; poteva indurre una cammella a generare un ippopotamo, una gatta a generare una tamia, o magari una donna a generare un sulidor. Bastava rinforzare le caratteristiche desiderate entro lo sperma e l’uovo, e sopprimere altre caratteristiche, fino ad avere una copia ragionevole della creatura desiderata. I mattoni genetici fondamentali erano gli stessi per ogni forma di vita; riorganizzandoli, si poteva creare ogni genere di mostruosa progenie. Ma quello che stava accadendo lì era una cosa diversa.
Sulla Terra, Gundersen lo sapeva, era anche possibile indurre qualsiasi cellula vivente a svolgere la funzione di un uovo fertilizzato, dividersi, crescere, produrre un organismo completo. Il veleno di Belzagor era un catalizzatore per questo processo; ce n’erano altri. In questa maniera si poteva indurre il moncone di un braccio a riprodurre quel braccio; si poteva da un frammento di pelle di rana generare un esercito di rane; si poteva perfino ricostruire un intero essere umano dai resti di un corpo distrutto. Ma quello che stava accadendo lì era una cosa diversa.