Gundersen piange per Kurtz.
Il cosmo si riempie di lacrime scintillanti, e su quel fiume salato galleggia Gundersen, trasportato senza volontà, visitando questo e quel mondo, scivolando fra le nebulose, attraversando nuvole di polvere cosmica, librandosi sopra strani soli.
Non è solo. Na-sinisul è con lui, e Srin’gahar, e Vol’himyor, e tutti gli altri.
Diviene consapevole dell’armonia di tutte le cose g’rakh. Vede per la prima volta i legami che uniscono g’rakh a g’rakh. Colui che giace nella rinascita è in contatto con tutte quante, in ogni momento e in tutti i momenti, ogni anima del pianeta unita in un contatto senza parole.
Vede l’unità di tutto il g’rakh, e questo lo fa sentire umile e timoroso.
Percepisce la complessità di questo popolo doppio, il ritmo della sua esistenza, l’infinito alternarsi di cicli di rinascita e di nuova creazione, al di sopra dell’unione, dell’unità fondamentale. Percepisce il proprio mostruoso isolamento, le mura che lo separano dagli altri uomini, che separano uomo da uomo, ciascuno prigioniero nel proprio cranio. Vede cosa significa vivere fra gente che ha imparato come liberare il prigioniero del cranio.
Questa consapevolezza lo fa sentire piccolo, lo schiaccia. Pensa: Li abbiamo fatti schiavi, li abbiamo chiamati bestie, e per tutto il tempo loro erano uniti, le loro menti si parlavano senza parole, si trasmettevano reciprocamente la musica dell’anima. Noi eravamo soli e loro non lo erano, e invece di inginocchiarci davanti a loro, di implorarli di farci partecipare al miracolo, li facevamo lavorare per noi.
Gundersen piange per Gundersen.
Na-sinisul dice: Questo non è il momento per il dolore, e Srin’ga-har dice: Il passato è passato, e Vol’himyor dice: Attraverso il rimorso tu sei redento, e tutti parlano con una sola voce e nello stesso momento, e Gundersen comprende. Comprende.
Ora Gundersen comprende tutto.
Sa che nildor e sulidoror non sono due specie separate, ma solo forme della medesima creatura, non più diversi di quanto lo siano bruchi e farfalle, anche se non saprebbe dire quale sia il bruco e quale la farfalla. È consapevole di com’era la vita per i nildor quando erano nel loro stato primordiale, e nascevano come nildor, e morivano inermi come nildor, quando sopravveniva l’inevitabile decadenza della loro anima. E conosce la paura e l’estasi di quei primi nildor che accettarono la tentazione dei serpenti e bevvero la droga della liberazione, e divennero esseri con pelliccia e artigli, malformati e trasmutati. E conosce il loro dolore, quando vennero scacciati fino all’altopiano, dove nessun essere in possesso di g’rakh osava avventurarsi.
E conosce le loro sofferenze sull’altopiano.
E conosce il trionfo di quei primi sulidoror che superando il proprio isolamento tornarono dalle terre selvagge portando un nuovo credo. Venite e sarete trasformati, venite e sarete trasformati! Abbandonate questa carne per un’altra! Non brucate più, ma cacciate e mangiate carne! Rinascete a nuova vita, e conquistate il corpo triste che trascina lo spirito alla distruzione!
E vede i nildor accettare il loro destino e concedersi gioiosamente alla rinascita: dapprima pochi, poi sempre più, poi interi accampamenti, intere popolazioni che partivano non per nascondersi nell’altopiano della purificazione, ma per vivere in maniera nuova, nella terra dove regnano le nebbie. Non possono resistere, perché con la trasformazione del corpo giunge la benedetta liberazione dell’anima, l’unità, l’unione di g’rakh con g’rakh.
Comprende ora cosa significò per loro l’arrivo dei terrestri, gli ansiosi, indaffarati, penosi, ignoranti terrestri dalla breve vita, che erano esseri di g’rakh ma che non sapevano o non volevano entrare nell’unità, che giocavano con la droga della liberazione e non la gustavano fino in fondo, le cui menti erano chiuse l’una all’altra, le cui strade ed edifici e pavimentazioni si allargavano come una lebbra sulla tenera terra. Comprende quanto poco i terrestri sapessero, e quanto poco fossero in grado di imparare, e quanto era loro nascosto perché avrebbero frainteso, e perché era necessario che i sulidoror si nascondessero nelle nebbie durante tutti gli anni dell’occupazione, senza mostrare indizio alcuno agli stranieri che fossero imparentati con i nildor, che fossero i figli dei nildor e i padri dei nildor. Poiché se i terrestri avessero saputo anche metà della verità, si sarebbero ritratti con terrore, dal momento che le loro menti sono chiuse l’una all’altra, e non sono disposti ad accettare null’altro, eccetto i pochi che osarono imparare, e troppi di costoro erano dominati da un demone, come Kurtz.
Prova un vasto sollievo per il fatto che il tempo della finzione è finito su questo mondo, e che nulla deve più essere nascosto, che i sulidoror possono andare nelle terre dei nildor e muoversi liberamente, senza paura che il segreto e il mistero della rinascita venga accidentalmente rivelato a coloro che non potrebbero sopportare questa conoscenza.
Prova gioia per essere arrivato fin lì ed essere sopravvissuto alla prova e aver sopportato la propria liberazione. La sua mente adesso è aperta, è rinato.
Discende, riunendosi al proprio corpo. È nuovamente consapevole di essere avvolto nella gelatina coagulata sul freddo pavimento di una cella oscura al termine di un lungo corridoio in una montagna rosata, circondata da bianca nebbia, su un mondo alieno. Non si alza. Il suo tempo non è ancora giunto.
Si arrende ai toni e ai colori e agli odori e alle superfici che inondano l’universo. Si lascia trasportare e galleggia a ritroso lungo la linea del tempo, e torna a essere un bambino che scruta lo scudo della notte e cerca di contare le stelle, e di nuovo sorseggia timidamente il veleno non distillato insieme a Kurtz e Salamone, e di nuovo si arruola nella Compagnia e dice a un computer che il suo desiderio più grande è di promuovere l’espansione dell’impero umano, e di nuovo abbraccia Seena su una spiaggia tropicale sotto la luce di parecchie lune, e la incontra per la prima volta, e setaccia cristalli nel Mare di Polvere, e monta su un nildor, e corre ridendo lungo una strada della fanciullezza, e rivolge la sua torcia su Cedric Cullen, e si arrampica sulla Montagna della Rinascita, e trema mentre Kurtz entra in una stanza, e prende l’ostia sulla lingua, e fissa la meraviglia di un bianco seno che gli riempie la coppa della mano, ed esce alla luce screziata di un sole alieno, e si inginocchia accanto al corpo pieno di larve di Henry Dykstra, e di nuovo, di nuovo, di nuovo…
Ode il rintocco di possenti campane.
Sente il pianeta tremare e spostarsi sul suo asse.
Odora lingue di fiamma danzanti.
Tocca le radici della montagna della rinascita.
Sente le anime di sulidoror e nildor tutto intorno a lui.
Riconosce le parole dell’inno che cantano i sulidoror, e canta con loro.
Cresce. Rimpicciolisce. Brucia. Rabbrividisce. Si trasforma.
Si sveglia.
— Sì — dice una voce bassa e profonda. — Esci adesso. Il tempo è giunto. Siediti. Siediti.
Gli occhi di Gundersen si aprono. Colori riempiono il suo cervello confuso. Ci vuole un momento prima che riesca a vedere.
Un sulidor è in piedi all’ingresso della sua cella.
— Sono Ti-munilee — dice il sulidor. — Sei rinato.
— Io ti conosco — dice Gundersen. — Ma non con questo nome. Chi sei?