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I numeri erano soli, purtroppo; non erano indicate cose come i volt o i megabar. Nonostante questo, la posizione di ogni strumento sul diagramma che formava il quadro, di solito lasciava intuire abbastanza chiaramente la sua funzione. In meno di un’ora, mi convinsi di aver compreso piuttosto bene l’intero sistema.

Dieci pozzi portavano fino agli assorbitori di calore, alla sorgente… presumibilmente una sacca di magma. I dettagli degli assorbitori non risultavano evidenti dal quadro, ma conoscevo abbastanza le installazioni vulcaniche per poterli immaginare. Una volta, avevo effettuato un’inchiesta sugli sprechi a Giava. Il fluido operante, là, era acqua; l’impianto che faceva entrare l’acqua marina e la dissalava, le unità elettrolitiche che estraevano metalli alcalini dai sali recuperati, e gli alimentatori ad iniezione di ioni apparivano perfettamente evidenti nel quadro.

Anche i convertitori erano dieci, ma confluivano tutti in un condensatore comune, che sembrava raffreddato dall’acqua marina esterna. Non serviva come preriscaldatore per il distillatore, e questo mi sembrava uno spreco. Poiché sui contatori mancavano le unità, non potevo sapere con certezza quanta potenza netta sviluppasse, ma sembrava ovvio che fosse nell’ordine di vari megawatt.

Non avevo notato il suono di cui aveva parlato Bert, forse grazie alla muta. Decisi di correre il rischio, e allentai leggermente uno dei polsini, tra la manica e il guanto. Il suono c’era veramente, un rombo pesante, come di un’immane canna d’organo, e senza dubbio dovuto ad un’identica causa fisica. Non era doloroso, ma mi rendevo conto che sarebbe stato imprudente togliere la muta protettiva. Mi chiesi se eravamo veramente molto vicini ai condotti del vapore, che dovevano essere la fonte del rombo. E soprattutto, mi chiesi come veniva provveduto alla manutenzione, ma per il momento dovetti rinunciare ai particolari.

Quelli che erano arrivati con Bert e con me erano rimasti più lontani dal quadro, presumibilmente perché l’aveva ordinato lui. Per un po’ stettero a guardare quel che succedeva, ma poi cominciarono a parlare tra di loro, a giudicare dai movimenti delle mani. La scena mi ricordava degli scolaretti che hanno perso l’interesse per il film. Ancora una volta, ricordai quant’era strano il fatto che Bert potesse dare ordini, o anche fare da guida.

Dopo i primi minuti, lui non aveva badato ai quattro che ci avevano seguiti. Mi aveva rivolto un cenno, come per farmi capire che sarebbe ritornato dopo, e se ne era andato a nuoto. Io continuai ad ispezionare il quadro.

Per quasi un’ora, la ragazza ed i suoi compagni mi seguirono dappertutto, ma senza avvicinarsi ugualmente al quadro ed agli operatori. Sembravano interessarsi più a me che agli aspetti tecnologici della centrale. Considerai la cosa comprensibile, nel caso della ragazza, e supposi che gli uomini si limitassero a starle dietro.

Finalmente decisi di non poter ricavare più nulla dall’esame del quadro e cominciai a domandarmi dov’era andato Bert. Sembrava impossibile chiederlo: lui si era portato dietro la tavola per scrivere, e comunque avevo avuto modo di constatare l’inutilità di quel metodo. Se tra i miei accompagnatori vi fosse stato qualcuno che non aveva partecipato al precedente tentativo, forse avrei cercato di riprovare comunque; ma così come stavano le cose, l’assenza del materiale per scrivere costituiva più una sfida che una seccatura. Pensai che fosse ora di imparare il locale linguaggio dei segni.

Mi allontanai dal quadro dei comandi, portandomi verso la parete di fondo, e gli altri mi seguirono. Cominciai quella che speravo sarebbe stata una lezione linguistica, secondo il metodo abituale presentato dai romanzi. Indicai vari oggetti, e cercai di indurre gli altri ad usare i gesti corrispondenti.

Andò male, logicamente. Andò così male che non ero neppure sicuro che quelli avessero capito cosa volevo, quando Bert ritornò. I quattro avevano rivolto una quantità di cenni con le mani, le braccia e le dita, sia a me che ai loro compagni, ma non riuscivo a capire se rappresentassero i nomi delle cose che indicavo, oppure simboli per i verbi delle azioni che io compivo. Probabilmente, mi sfuggivano molte sottigliezze, ma non notai mai un gesto che si ripetesse abbastanza spesso perché fosse possibile impararlo. Era l’esperienza più frustrante che avessi vissuto da… be’, da qualche ora, almeno. Forse da un giorno o qualcosa di più.

Quando Bert ritornò e vide quello che stava succedendo, ebbe un altro attacco di quasi-risate.

«Ci avevo provato anch’io,» scrisse poi, «quando sono arrivato qui. Vengo considerato un buon linguista, ma non ho mai fatto progressi. Non vorrei sembrarti presuntuoso, ma non credo sia possibile, se non cominci da bambino.»

«Devi pur avere imparato qualcosa.»

«Sì. Una cinquantina di simboli fondamentali… credo.»

«Ma tu stavi parlando con costoro. Ho avuto l’impressione che dicessi loro cosa dovevano fare.»

«In un certo senso, e in modo zoppicante. Le poche decine di gesti che conosco includono i verbi più ovvii, ma non so eseguire bene neppure quelli. Tre quarti della gente non riescono a capirmi affatto… quella ragazza è una delle migliori. Io posso leggere ciò che dicono solo quando fanno i segni molto lentamente.»

«E allora, come diavolo fai a dire loro cosa debbono fare? E non ti sembra in contraddizione con quanto mi avevi detto… che nessuno può dire agli altri ciò che debbono fare?»

«Forse mi sono espresso male. Non è un governo autoritario, questo, ma di solito il consiglio del Comitato viene accettato, almeno nelle questioni sia pur lontanamente collegate con il funzionamento dell’installazione.»

«E questo Comitato ti ha conferito una sorta di autorità? Perché? E questo significa che Marie ha ragione di credere che tu abbia voltato le spalle al Consiglio e all’umanità e sia passato completamente dalla parte di questi sprecatori?»

«Una domanda per volta, prego,» scarabocchiò in fretta Bert. «Il Comitato non mi ha conferito nessuna autorità. Io mi limito a dare suggerimenti nella mia qualità di membro.»

Presi la tavola, e la cancellai, cercando nel contempo di attirare il suo sguardo. Finalmente scrissi: «Ripeti, per piacere? I miei occhi debbono avermi ingannato.»

Lui sogghignò e riscrisse la frase. Lo guardai con un’espressione che lo raffreddò di colpo: e riprese a scrivere.

«Non — sottolineato — «sono qui per restare, qualunque cosa ne pensi Marie, e nonostante ciò che ti ho detto prima. Mi dispiace di doverti mentire. Sono qui per svolgere un lavoro: cosa succederà quando l’avrò ultimato, non lo so. Tu sei nella stessa situazione, e lo sai benissimo.» Dovetti annuire in segno di assenso. «Faccio parte del Comitato a causa della mia abilità di linguista e dei miei precedenti generali.» Ero così assorto nel tentativo di ricavarne un senso che per poco non dimenticai di leggere quello che Bert scrisse dopo; dovetti fermarlo, mentre stava per cancellare la tavoletta e lasciar spazio ad altre parole. «Vi sono altre informazioni relative a questo posto che preferivo non riferirti, ma ho cambiato idea. Te lo farò vedere, e potrai decidere tu stesso se e come includerlo nel tuo compito di indurre Marie a optare in un senso o nell’altro. Io ho una mia opinione sul modo in cui bisognerebbe servirsene: ma tu hai il diritto di pensarla come vuoi. Vieni. Voglio farti conoscere l’ingegnere responsabile del lavoro di sviluppo e manutenzione.»

Se ne andò a nuoto, e io lo seguii, tallonato dagli altri. Non sentivo l’impulso di parlare, anche se fosse stato possibile. Cercavo ancora di capire in che modo qualcuno che conosceva il linguaggio locale sì e no come un bambino di due anni poteva essersi assicurato una posizione ufficiale grazie alle sue doti linguistiche.

Senza dubbio ormai l’avrete capito, poiché ho cercato di spiegarmi onestamente: ma per me era troppo. Ero così indietro rispetto alla realtà da restare sbalordito di fronte a qualcosa che, probabilmente, voi già vi stavate aspettando. Entrammo a nuoto in un ufficio all’estremità della grande sala, e io vidi, fluttuante davanti ad un visore per microfilm, ignaro di quanti lo circondavano, il mio buon amico Joey Elfven.