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— Mike, stammi al fianco, a lottare.

— Sarebbe del tutto inutile, Pete. Lo hai detto tu, stupidità. I para-uomini saranno anche più progrediti di noi, o più intelligenti se proprio insisti, ma è lampante che sono stupidi come noi, e questo chiude la questione. L’ha detto bene Schiller, e io gli credo.

— Chi l’ha detto?

— Schiller. Un drammaturgo tedesco di tre secoli fa. In una tragedia su Giovanna d’Arco ha scritto: “Contro la stupidità anche gli dei lottano invano”. Cioè, neanche gli dei possono farci niente. Io non sono un dio e sono stufo di lottare. Lascia perdere, Pete, e va’ per la tua strada. Forse il mondo durerà quanto la nostra vita, ma, se non sarà così, non ci possiamo far niente lo stesso. Mi dispiace, Pete. Hai lottato per una causa giusta, ma hai perso, e io sono stufo.

Se ne andò e Lamont restò solo. Rimase seduto sulla sua poltroncina, con le dita che picchiettavano, picchiettavano senza scopo sulla scrivania. E intanto, all’interno del Sole, i protoni si fondevano insieme con una briciola in più di avidità e a ogni istante quest’avidità aumentava di una briciola e sarebbe arrivato il momento in cui il delicato equilibrio si sarebbe spezzato…

— E sulla Terra non ci sarà più nessuno, vivo, per sapere che avevo ragione — gridò Lamont, battendo e ribattendo le palpebre per trattenere le lacrime.

PARTE SECONDA

…Neanche gli dei…

1a

Dua aveva potuto allontanarsi dagli altri senza troppi fastidi. Se ne aspettava sempre, invece i guai non arrivavano. Mai guai seri, comunque.

E poi perché avrebbero dovuto arrivare?, avrebbe obiettato Odeen con il suo modo di fare un po’ saccente. — Sta’ qui — avrebbe detto. — Lo sai che Tritt si secca. — Lui non parlava mai delle proprie seccature: i Razionali non s’inalberavano mai per le sciocchezze. Eppure volteggiava su Tritt in continuazione, quasi quanto Tritt volteggiava sui bambini.

Ma poi Odeen la lasciava sempre fare a modo suo, se lei insisteva abbastanza, e intercedeva persino presso Tritt. A volte ammetteva addirittura di essere fiero delle sue capacità, della sua indipendenza… In fondo non era un cattivo sinistride, pensò Dua, con un vago slancio d’affetto.

Tritt era più difficile da trattare e la guardava in un certo modo, tra l’arcigno e l’amareggiato, quando lei era… be’, quando lei era come voleva essere. Boh, i destridi erano fatti così. Per lei Tritt era un destride, ma per i bambini era un Paterno, e questo secondo aspetto della sua personalità era predominante… Il che era un bene, perché lei poteva sempre contare sul fatto che l’uno o l’altro dei bambini avesse bisogno di lui e lo facesse allontanare giusto quando le cose cominciavano a mettersi male.

Con tutto questo, a Dua non importava molto di Tritt: tendeva a ignorarlo, tranne naturalmente che nella fusione. Odeen era un’altra cosa. In principio era stato eccitante: le era bastata la presenza di Odeen perché i suoi contorni brillassero e si dissolvessero. E il fatto che lui fosse un Razionale lo aveva reso ancora più eccitante. Non aveva capito, però, il perché di quella sua reazione: l’aveva considerata parte del suo Garattere strano. Era cresciuta così, strana, e ormai si era abituata alla propria stranezza… quasi.

Dua sospirò.

Da bambina, quando ancora pensava a se stessa come a un individuo, un essere singolo e non la terza parte di una triade, era molto più consapevole di quella diversità. Ed erano soprattutto gli altri a renderla tanto consapevole. Una cosa da niente, come la superficie, la sera al tramonto…

Le era sempre piaciuta la superficie, di sera. Le altre Emotive dicevano che era fredda e triste, e rabbrividivano e si condensavano quando lei gliela descriveva. Erano abbastanza propense a emergere nel pieno calore del mezzodì, per estendersi e nutrirsi, ma era proprio quello che a lei rendeva tanto antipatico il mezzodì. Non le andava di essere nei paraggi di quel mucchio di pettegole pigolanti.

Doveva mangiare anche lei, ovviamente, ma preferiva di gran lunga farlo la sera, quando il cibo scarseggiava, ma tutto era avvolto in una cupa penombra rossa e lei era sola. Naturalmente descriveva la superficie al tramonto più fredda e desolata di quanto fosse, quando ne parlava alle altre, proprio per vederle ispessire i contorni mentre s’immaginavano il gelo… o per lo meno ispessirli di quanto potevano farlo le giovani Emotive. Dopo un po’ si erano messe a bisbigliare sul suo conto, a deriderla e… a lasciarla sola.

Il piccolo sole toccava adesso l’orizzonte e aveva quella segreta tinta rossastra che soltanto lei era là a vedere. Si estese dalle due parti, rafforzando intanto lo spessore dorsoventrale, per assorbire le ultime tracce di calore. Lo centellinò oziosamente, assaporando il gusto lievemente acidulo ma poco sostanzioso delle lunghezze d’onda lunga. (Non aveva mai conosciuto un’altra Emotiva che ammettesse di gradirlo. Ma lei non avrebbe mai detto a nessuno che le piaceva perché lo associava alla libertà: la libertà dagli altri, di quando poteva starsene da sola.)

Persino adesso la solitudine, il gelo e il rosso cupo le riportarono alla mente i giorni lontani, prima della triade, e il ricordo ancora vivissimo del suo Paterno, che sarebbe senz’altro venuto a cercarla, muovendosi in quel suo modo rumoroso e goffo, per l’eterno timore che si facesse male.

Le era stato tanto, tanto affezionato, come lo erano sempre i Paterni: preoccupati e ansiosi per le loro piccole mediane più che per gli altri due. Quell’attaccamento l’aveva disturbata e aveva desiderato moltissimo che arrivasse il giorno in cui lui l’avrebbe lasciata: i Paterni, alla fine, lo fanno sempre. Ma quando lui se n’era andato, un bel giorno, quanto ne aveva sentito la mancanza!

L’aveva cercata per parlarle, con la sollecitudine e l’affetto di sempre, nonostante la difficoltà che i Paterni incontrano quando devono esprimere con le parole i loro sentimenti. E quel giorno lei era corsa via, lontano da lui, non per fargli un dispetto e nemmeno perché avesse immaginato quello che lui aveva da dirle, ma così, soltanto per ridere. A mezzodì era riuscita a scovare un posto speciale e, inaspettatamente sola soletta, aveva fatto una scorpacciata che l’aveva riempita di uno strano, impellente bisogno di movimento e di azione: così si era stesa tutta sopra le rocce lasciando che i suoi margini si sovrapponessero ai loro. Sapeva che era un comportamento indecente, permesso solo ai bambini più piccoli, eppure era eccitante e riposante insieme.

E alla fine il suo Paterno l’aveva trovata ed era rimasto ritto davanti a lei, tacendo a lungo e facendo gli occhi piccoli piccoli e densi, come per fermare ogni minimo sprazzo di luce riflessa da lei, per vedere di lei quanto più poteva e il più a lungo possibile.

Sulle prime, lei aveva semplicemente ricambiato lo sguardo, pensando confusamente che lui l’avesse vista strofinarsi sulle rocce e penetrarle, e che si vergognasse di lei. Ma non aveva captato alcuna aura-di-vergogna e infine si era decisa a mormorare, appena appena: — Cosa c’è, Papà?

— Ecco, Dua, è l’ora. L’aspettavo, e certo l’avrai aspettata anche tu.

— Quale ora? — Adesso che era arrivata, cocciutamente non voleva saperlo. Se si rifiutava di conoscere una cosa, allora non sarebbe esistito niente da conoscere. (Non aveva mai perso quell’abitudine. Odeen diceva che tutte le Emotive sono così, con quel tono di saccente superiorità che usava talvolta, quando si sentiva particolarmente fiero dell’importanza di essere un Razionale.)

Il Paterno aveva risposto: — Devo trapassare. Non sarò più con te. — Poi aveva taciuto e aveva continuato a guardarla, e lei non era stata capace di dire niente.

Lui aveva aggiunto: — Lo dirai tu agli altri.