Finito, finalmente.
Saul chiuse la spugna dentro il secchio, e si tolse i guanti. Guardò le file dei loculi dei loculi simili a bare, annebbiati a causa del freddo e della condensazione interna, ognuno che, dentro, mostrava una forma vaga, ibernata. Per due giorni era rimasto là sotto, nella camera refrigerata, cercando di tenere le infestazioni lontane dai loculi.
Al di là delle file dei dormienti, un banco da lavoro era sparpagliato di pezzi di vetro e congegni elettronici strappati da una mezza dozzina di pannelli di strumenti. Un'alta forma era china sopra quel guazzabuglio.
— Hai quasi finito con quelle lampade, Joao? — lo chiamò Saul. — Le ho promesse a Carl al più presto.
Il brasiliano dal volto olivastro scosse la testa e borbottò amareggiato. — Ho disimballato e smontato soltanto quattro lampade da quando me l'hai chiesto l'ultima volta, Saul. Dammi tempo!
Era ovvio che a Quiverian non piaceva venir trascinato a forza a fare «lavori manuali» lì fuori, nel colombario Uno, dove il freddo era intenso e c'era pericolo. Saul era stato costretto a scendere personalmente alla Centrale e a trascinar via quell'uomo da una lunga, disordinata, conversazione a lunghi intervalli di tempo con un collega planetologo sulla Terra. Fino a quel momento Joao si era comportato come se quell'ordine di mobilitazione totale non avesse niente a che fare con lui.
Il primo lavoro era stato di esaminare ogni centimetro quadrato delle cavità dei loculi, catalogando le infestazioni. Poi erano giunte le lunghe, laboriose ore passate a raschiare, pulire e disinfettare. Le prese per la circolazione dell'aria erano rimaste ingorgate da quei lichenoidi simili a filamenti, finendo quasi per soffocare un'intera fila di loculi. Salvo per un breve periodo di sonno, i due uomini si erano dedicati a quel lavoro senza mai fermarsi per quasi quaranta ore.
Grazie al cielo misericordioso i mech di Virginia hanno riferito che ci sono pochi problemi negli altri due colombari! Finalmente, quando Quiverian era parso sul punto di volersi ribellare, Saul l'aveva messo a lavorare all'assemblaggio delle lampade a idrogeno, sollevandolo dall'incombenza di star curvo a pulire.
— Se hai tanta, maledetta fretta — si lamentò Quiverian, — perché non svegli quell'ossopigro laggiù? Mettilo a fare qualcosa di più utile che starsene lì a russare e a riscaldare tutta la caverna con la sua coperta elettrica!
Saul lanciò un'occhiata alla forma supina del tecnico spaziale Garner, disteso in un angolo buio del pavimento di foglio-fibra. Garner era rimasto in servizio per quattro giorni filati. L'uomo si stava semplicemente facendo una dormita di qualche ora prima di unirsi di nuovo alla battaglia. Al confronto, il lavoro di Joao era stato una vacanza.
— Lascialo stare, Joao. Prenderò le prime quattro lampade e le proverò. Tu, continua a lavorare sulle altre.
Fece una pausa e aggiunse: — Soltanto, per favore, Joao: stai attento, vuoi? Cerca di non rompere qualcun'altra di quelle lampade. È lunga la strada per arrivare al magazzino delle scorte.
Quiverian scrollò le spalle. — Prima dici di fare in fretta, poi di fare attenzione. Deciditi.
Saul si rese conto che quell'uomo l'avrebbe fatto uscire dai gangheri, se si fosse fermato ancora là. — Cerca di fare meglio che puoi. — Prese su un gruppo di quei fari lunghi e sottili; il cui scopo era quello di lampeggiare per fornire punti di riferimento per la navigazione agli astronauti che lavoravano sulla Luna o gli asteroidi. Era convinto che qui sarebbero stati utili per un'altra funzione.
Vedremo se servono a qualcosa contro una forma di vita che vive nello spazio.
Con una lenta planata si avviò verso l'ingresso della Galleria J, un'uscita color ambra dalla grande camera che conteneva il colombario Uno. In quel momento pareva che il posto fosse ammantato da un'atmosfera soprannaturale a causa delle luci tenute abbassate. Quei recessi nel soffitto a volta parevano più profondi e misteriosi, come le crociere in un'antica tomba. Il fibratessuto smussava gli spigoli, ma quella vasta caverna era ancora un buco irregolare sotto il ghiaccio. Non ci si soffermava a pensare a tutte le tonnellate sospese sopra la propria testa, in quel chilometro o anche più che ci voleva per arrivare in superficie.
Al centro del pavimento della cavità, proiettando ombre alla luce dei pochi pannelli luminescenti attivi, l'estremità prodiera della chiatta-colombario Whipple giaceva al centro di cinque corsie di contenitori a forma di feretro: i luoghi di riposo individuali di più di cento fra uomini e donne ibernati.
Se dovessimo perdere questa battaglia, qualcuno di questa gente vedrà mai di nuovo la luce? Respireranno, e rideranno, e ameranno? si chiese Saul. La nostra disperazione penetra almeno in parte fino a loro, disturbando i loro lenti sogni?
Là dentro faceva buio come in un sepolcro. E cominciava anche a fare maledettamente freddo.
Le luci erano state abbassate per risparmiare energia. La pila a fusione era stata attenuata due settimane prima, quando tutti, tranne quattordici umani, erano stati refrigerati, e tutti si erano aspettati un lungo, tranquillo e noioso turno di guardia. Adesso non c'era nessuna manodopera disponibile per supervisionare un reattore alimentato al massimo. Tutte le persone disponibili erano indispensabili nei corridoi, nei passaggi di servizio o in infermeria.
Comunque, la luce era una delle cose che attiravano i lichenoidi, e le creature purpuree. La luce, il calore, l'aria e il cibo…
Immagino non sia un puro caso, se ci piacciono le stesse cose. La differenza più grossa sta nel fatto che le halleyforme vivono brevemente in primavera, ogni settantacinque anni o giù di lì, quando le onde di calore migrano verso il basso dalla superficie riscaldata dal sole. Sono strutturate per agire, e agire in fretta, per approfittare dell'improvvisa buona stagione.
Saul era ancora non poco confuso dall'abbondanza di tipi, dalla complessità delle forme che si nutrivano di quella vegetazione verde simile ad alghe. Anche semplicemente esistendo, avevano violato i princìpi della moderna biologia.
Ma, dopo un po', riacquistò sufficiente spirito pratico per smetterla di borbottare fra sé: «impossibile».
Più tardi, avrebbe anche potuto tentare di scoprire una risposta. Per il momento, doveva scoprire qualche sistema per fermarle.
Cominciava ad abituarsi a manovrare in bassa gravità. Comunque, i suoi piedi interferirono l'uno con l'altro quando atterrò vicino al boccaporto della Galleria J.
Per fortuna, c'erano soltanto pochi ingressi al colombario Uno. La Galleria J era quello critico. Soltanto a poche centinaia di metri in quella direzione, e ad un livello più alto, Carl Osborn e la sua affaticata squadra stavano stancamente raschiando via la variante verde delle halleyforme che gli spaziali avevano preso l'abitudine di chiamare «poltiglia»… cercando di liberare un passaggio critico dall'accumulo di cibo brucato da quegli orripilanti vermi purpurei.
Fino a quel momento abbondanti dosi di antisettici ed erbicidi sintetici parevano essere riusciti a compiere il miracolo… per ora almeno. Ma non possiamo affidarci a questo per sempre.
Con cautela mise giù tre delle lampade e piazzò la quarta in posizione subito dopo il boccaporto aperto, dentro la galleria vera e propria. Dovette cercare la giusta presa di corrente, e finalmente la trovò, parzialmente nascosta sotto una sottile ragnatela di fili multicolori. Questi dovette spingerli da parte con lo stivale, prima di riuscire a collegare l'unità e a regolare il timer.
— Allò, prova. — Batté il dito sul piccolo microfono del casco che si allungava da sotto il suo berretto di lana.
— Lintz convoglia-parola a casco di spaziale Osborn, per favore collega per conversazione. — Sapeva che c'erano metodi più economici per chiedere al computer principale di collegarlo a Carl, aveva visto gli spaziali cinguettare istruzioni di convogliamento in minor tempo di quanto ne impiegava lui nell'esibirsi in un singhiozzo, ma aveva dimenticato il corretto protocollo. Per lo meno era sicuro che in quel modo le macchine avrebbero capito.