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E Marlene poteva parlare con Eritro. Aveva deciso che per lei le cellule che costituivano la forma di vita di Eritro erano Eritro. Le identificava col pianeta. Perché no? Individualmente, le cellule erano solo cellule, primitive come quelle… anzi, ancor più primitive di quelle del suo corpo. Solo tutte le cellule procariotiche insieme formavano un organismo di milioni di miliardi di parti microscopiche collegate tra loro che riempiva il pianeta, che lo pervadeva, che lo stringeva… quindi tanto valeva considerare le due cose equivalenti. L’organismo dunque corrispondeva al pianeta per lei.

Che strano, pensò Marlene. Prima dell’arrivo di Rotor, quella gigantesca forma di vita non doveva mai aver saputo di non essere l’unica cosa viva esistente.

Le domande e le sensazioni di Marlene non erano confinate soltanto nella sua mente. A volte, Eritro si alzava di fronte a lei, come un velo sottile di fumo grigio, assumendo le sembianze di una figura umana spettrale che guizzava ai margini. La manifestazione aveva sempre un che di fluido, di mutevole. Non che Marlene in realtà lo vedesse… però lo avvertiva senza il minimo dubbio… da un istante all’altro, milioni di cellule invisibili scomparivano e venivano immediatamente sostituite da altre cellule.

Le cellule procariotiche non potevano vivere a lungo fuori dal loro strato d’acqua, quindi ogni cellula era solo una componente effimera della figura, ma la figura persisteva finché voleva, e non perdeva mai la propria identità.

Eritro non aveva più assunto la forma di Aurinel. Aveva capito, senza che lei glielo dicesse, che quella forma la turbava. Adesso l’aspetto di Eritro era neutro, cambiava leggermente a seconda delle divagazioni mentali di Marlene. Eritro riusciva a seguire i lievi cambiamenti della struttura mentale della ragazza molto meglio di Marlene stessa, lei ne era convinta… e la figura rifletteva tali variazioni, ispirandosi alle immagini presenti di volta in volta nella mente di Marlene, poi, quando lei cercava di metterla a fuoco e di identificarla, la figura si trasformava dolcemente in qualcos’altro. Di tanto in tanto, Marlene coglieva di sfuggita qualche particolare: la curva della guancia di sua madre, il naso forte di zio Siever, alcuni tratti dei ragazzi e delle ragazze che aveva conosciuto a scuola.

Era una sinfonia interattiva. Non tanto una conversazione tra loro quanto un balletto mentale che lei non era in grado di descrivere. Qualcosa di infinitamente riposante, di infinitamente vario… che in parte cambiava aspetto, in parte la voce, in parte i pensieri.

Era una conversazione in tante dimensioni, e all’idea di tornare a un tipo di comunicazione unicamente verbale Marlene si sentiva spenta, scialba. La sua capacità di interpretare il linguaggio del corpo era sfociata in qualcosa che lei non avrebbe mai potuto immaginare. I pensieri erano molto più rapidi e profondi delle parole… imprecise, approssimative, grossolane…

Eritro le spiegò, o meglio le trasmise, lo shock dell’incontro con altre menti. Menti. Plurale. Di fronte a un’altra mente, a una sola, forse Eritro non avrebbe avuto problemi di comprensione. Un altro mondo. Un’altra mente. Ma incontrare molte menti, che si accavallavano, tutte diverse tra loro, ammassate in uno spazio ristretto… Inconcepibile.

I pensieri che permeavano la mente di Marlene mentre Eritro comunicava con lei non erano esprimibili a parole, se non in modo molto vago e insoddisfacente. Dietro quelle parole, molto più intense, prepotenti, c’erano le emozioni, le sensazioni, le vibrazioni neuroniche che riflettevano l’esperienza traumatica di Eritro.

Aveva tentato il contatto con quelle menti… le aveva «tastate», «toccate», per modo di dire, perché non esisteva un termine umano in grado di esprimere appieno l’azione di Eritro. E alcune di quelle menti si erano disgregate, deteriorate, erano diventate sgradevoli. Eritro aveva cessato di tastare le menti a caso, aveva cercato invece delle menti in grado di sopportare il contatto.

"E hai trovato me?" disse Marlene.

"Sì."

"Ma perché? Perché mi hai cercata?" chiese ansiosa Marlene.

La figura ondeggiò e divenne più densa. "Solo per trovarti."

Non era una risposta. "Perché vuoi che stia con te?"

La figura cominciò a dissolversi… un pensiero fugace… "Solo perché ti voglio con me."

E sparì.

Solo la sua immagine era scomparsa. Marlene sentiva tuttora la sua protezione, il suo caldo abbraccio. Ma perché era sparito? L’aveva seccato con le sue domande?

Marlene sentì un suono.

Su un mondo deserto era possibile catalogare i suoni in breve, perché erano pochi… il rumore dell’acqua che scorreva, quello più delicato dell’aria che soffiava, i rumori prevedibili dei propri passi, il fruscio dei vestiti, il sibilo del respiro…

Marlene udì qualcosa di diverso, e si girò nella direzione del rumore. Sull’affioramento roccioso alla sua sinistra apparve la testa di un uomo.

Qualcuno della Cupola che era venuto a prenderla, pensò subito Marlene, arrabbiandosi. Perché continuavano a cercarla? D’ora in poi, si sarebbe rifiutata di portare una trasmittente, così non avrebbero più potuto localizzarla, se non muovendosi alla cieca.

Però non riconobbe quella faccia, e ormai conosceva tutti gli occupanti della Cupola. Forse non sapeva i loro nomi, chi fossero, cosa facessero, ma era in grado di riconoscerli.

Quella faccia… no, non l’aveva mai vista nella Cupola.

Gli occhi la stavano fissando. La bocca era leggermente aperta, come se la persona stesse ansimando. Poi lo sconosciuto raggiunse la sommità dell’altura e corse verso di lei.

Marlene non si mosse. La protezione che sentiva intorno a sé era forte. Non aveva paura.

L’uomo si fermò a circa tre metri, imbambolato, piegandosi in avanti come se avesse di fronte una barriera impenetrabile che gli impedisse di proseguire.

Infine, con voce strozzata, esclamò: «Roseanne!»

LXXXIX

Marlene lo osservò attentamente. I suoi micromovimenti erano smaniosi ed emanavano un senso di proprietà… possesso, intimità… mia, mia, mia.

Marlene arretrò di un passo. Com’era possibile? Perché quello sconosciuto…

Il ricordo vago di un’oloimmagine che aveva visto una volta da piccola…

E alla fine, Marlene non poté più rifiutarsi di riconoscere. Per quanto sembrasse assurdo, inconcepibile…

Rannicchiandosi nella cortina protettiva, disse: «Padre?»

L’uomo si precipitò verso di lei quasi volesse stringerla tra le braccia, e Marlene arretrò ancora. Lui si fermò, vacillando, poi si portò una mano alla fronte come se stesse cercando di vincere un capogiro.

«Marlene» disse. «Intendevo dire Marlene.»

La pronuncia del nome era sbagliata, notò Marlene. Due sillabe. Del resto, come poteva sapere, lui?

Arrivò un altro uomo, che si affiancò al primo. Aveva i capelli lisci, una faccia larga, occhi stretti, una carnagione olivastra. Marlene non aveva mai visto un uomo del genere, e per un attimo rimase a bocca aperta.

Il secondo uomo si rivolse al compagno sottovoce, il tono incredulo. «È tua figlia, Fisher?»

Marlene spalancò gli occhi. Fisher! Era proprio suo padre!

Suo padre non si girò. Continuò a fissarla. «Sì.»

L’altro abbassò ancor di più la voce. «Così d’acchito… centro al primo tiro, Fisher? Vieni qui e la prima persona che incontri è tua figlia?»

Apparentemente, Fisher provò a staccare gli occhi dalla figlia, ma senza riuscirci. «Credo di sì, Wu… Marlene, il tuo cognome è Fisher, vero? E tua madre è Eugenia Insigna, giusto? Mi chiamo Crile Fisher, e sono tuo padre.»

Tese le braccia verso di lei.

Marlene sapeva perfettamente che l’espressione di desiderio intenso di suo padre era autentica, ma indietreggiò ancora. «Come mai sei qui?» chiese, gelida.