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La loro stanza avrebbe potuto essere quella di Chiba in cui aveva incontrato Armitage la prima volta. La mattina dopo andò alla finestra quasi aspettandosi di vedere la baia di Tokyo. C’era un altro albergo sul lato opposto della strada. Pioveva ancora. Alcuni scrivani pubblici si erano rifugiati nel vano della porta, con i loro vecchi stampavoce avvolti in teli di plastica trasparente, la prova che da quelle parti la parola scritta godeva ancora di un certo prestigio. Era un paese lento. Case osservò una berlina, una Citroen nera non metallizzata, auto primitiva a celle d’idrogeno a conversione, mentre scaricava cinque ufficiali turchi dall’aria imbronciata con delle uniformi verdi stazzonate. Entrarono nell’albergo di fronte.

Quando Case gettò un’occhiata verso il letto in direzione di Molly, il suo pallore lo colpì. Molly aveva lasciato l’ingessatura di micropori nel loft, accanto all’induttore transdermico. I suoi occhiali riflettevano parte dell’impianto d’illuminazione della stanza.

Agguantò il telefono prima del secondo squillo. — Lieto che tu sia sveglio — disse Armitage.

— Da poco. La signora dorme ancora. Ascolta, capo, credo sia giunto il momento di farci una piccola chiacchierata. Inoltre credo che lavorerei meglio se sapessi qualcosa di più su ciò che sto facendo.

Silenzio in linea. Case si morsicò il labbro.

— Sai tutto quello che ti serve. Forse di più.

— Davvero?

— Vestiti, Case. Falla alzare. Avrete visite fra quindici minuti circa. Si chiama Terzibashjian. — Il telefono emise un gemito soffocato. Armitage aveva appeso.

— Svegliati, bimba — la sollecitò Case. — Affari in vista.

— Sono sveglia da un’ora. — Gli specchi si girarono.

— Abbiamo un Jersey Bastian in arrivo.

— Hai proprio orecchio per le lingue, Case. Scommetto che sei in parte armeno. È l’occhio che Armitage ha avuto su Riviera. Aiutami ad alzarmi.

Terzibashjian risultò essere un giovanotto con un abito grigio e con un paio di occhiali a specchio montati in oro. Portava la camicia bianca aperta sul collo, rivelando un vello di peli scurì talmente folto che Case lo scambiò in un primo momento per una maglietta. Arrivò con un vassoio nero dell’Hilton sul quale erano sistemate tre tazzine fragranti di denso caffè nero e tre appiccicosi dolcetti orientali color paglia.

— Dobbiamo, come dite voi in ingiliz, prendercela con molta calma. — Parve quasi trafiggere con lo sguardo Molly, ma alla fine si tolse gli occhiali dalle lenti argentate. I suoi occhi erano castano scuro, intonati alla sfumatura dei capelli cortissimi, taglio militare. Sorrise. — Meglio così, vero? Altrimenti faremo un cerchio infinito, specchio dentro specchio… Lei in particolare — aggiunse, rivolto a Molly — deve stare attenta. In Turchia c’è una certa riprovazione per le donne che esibiscono modifiche come quelle.

Molly diede un morso a un pasticcino, spezzandolo in due. — Conduco io lo spettacolo, ciccio — rispose, con la bocca piena. Masticò, inghiottì e si leccò le labbra. — So di te. Un soffia dei militari, giusto? — La sua mano scivolò pigramente all’interno della giubba e ne uscì impugnando la Fletcher. Case non sapeva che l’avesse addosso.

— Con molta calma, per favore — propose Terzibashjian, tenendo la tazzina di porcellana bianca immobile a pochi centimetri dalle labbra.

Molly spianò la pistola. — Forse ti beccherai un sacco di esplosivi, o forse un cancro, faccia di merda. Un dardo. Non lo sentirai per mesi.

— Per favore… Come dite voi in ingiliz, mi stai facendo tremare.

— Io la definirei una brutta mattinata. Adesso parlaci del tuo uomo e poi togliti dalle palle. — Molly ripose la pistola.

— Abita a Fener, Kückük Gülhane Djaddesi 14. Ho il suo percorso con il tunel, tutte le sere al bazaar. Ultimamente ha recitato allo Yenishehir Palas Oteli, un posto moderno in stile turistik, ma è stato deciso che la polizia mostrasse un certo interesse per questi spettacoli. La direzione dello Yenishehir ha cominciato a innervosirsi. — L’armeno sorrise, ma con un vago sentore metallico di dopobarba.

— Voglio sapere degli innesti — disse Molly, massaggiandosi la coscia. — Voglio sapere esattamente quello che può fare.

Terzibashjian annuì. — Il peggio sono… come dite in ingiliz, i subliminali. — Pronunciò con soverchia attenzione le cinque sillabe della parola.

— Sulla vostra sinistra si trova Kapali Carsi, il gran bazar — disse la Mercedes, mentre risaliva un dedalo di strade bagnate dalla pioggia.

Accanto a Case, Finn emise un rumoretto di approvazione, ma stava guardando nella direzione sbagliata. Il lato destro della strada era fiancheggiato da piccoli sfasciacarrozze. Case vide una locomotiva sventrata in cima a blocchi di marmo scanalato, frantumati e macchiati di ruggine. Statue di marmo prive di testa erano ammucchiate come una catasta di legna.

— Nostalgia di casa? — domandò Case.

— Questo posto fa schifo — dichiarò Finn. La sua cravatta nera cominciava ad assomigliare al nastro consumato di una macchina da scrivere. C’erano macchie tonde di sugo di kebab e di uova fritte sul bavero del vestito nuovo.

— Ehi, Jersey — domandò Case, rivolto all’armeno seduto dietro — dov’è che si è fatto installare la sua roba questo tizio?

— A Chiba City. Non ha il polmone sinistro. L’altro è potenziato, è così che dite, mi pare. Chiunque può comperare questi innesti, ma il suo è particolarmente dotato. — La Mercedes sterzò di colpo per evitare un carro senza sponde con i pneumatici da camion, carico di pelli. — L’ho seguito per strada, e in un solo giorno ho visto una dozzina di ciclisti cadere vicino a lui. Sono andato a trovare un ciclista in ospedale, e la storia è sempre la stessa: uno scorpione appollaiato accanto alla leva del freno…

— “Quello che vedi è quello che ottieni”, già — commentò Finn. — Ho visto i diagrammi sul software di quel tizio. Impressionante. Vedi quello che lui immagina. Penso che potrebbe restringerlo a un singolo impulso e friggere una retina al tegamino.

— Hai detto questo alla tua amica? — Terzibashjian si sporse in avanti fra i sedili anatomici di ultracamoscio. — In Turchia le donne sono ancora donne. Questa…

Finn sbuffò. — Questa ti annoderà le palle a mo’ di cravatta se la guardi storto.

— Non capisco questo linguaggio.

— Tutto a posto — intervenne Case. — Significa: chiudi il becco.

L’armeno si adagiò contro lo schienale, lasciando nell’aria una punta metallica di dopobarba, e cominciò a bisbigliare dentro una ricetrasmittente Sanyo in una strana macedonia di greco, francese, turco e frammenti d’inglese. La ricetrasmittente rispose in francese. La Mercedes svoltò l’angolo con leggiadria. — Il bazar delle spezie, chiamato talvolta il bazar egiziano — informò la vettura. — Venne costruito sul sito di un precedente bazar dal sultano Hatice nel 1660. Questo è il principale mercato della città per le spezie, il software, i profumi, le droghe…

— Droghe — disse Case, osservando i tergicristalli della macchina che passavano e ripassavano sul Lexan antiproiettile. — Cos’è che hai detto prima, Jersey, sul fatto che questo Riviera è strafatto?

— Una mistura di cocaina e meperidina, sì. — L’armeno si affrettò a tornare alla conversazione che stava intrattenendo con il Sanyo.

— Un tempo lo chiamavano demerol — precisò Finn. — È un artista dello speedball. Ti immischi con una strana categoria di persone, Case.

— Non importa — rispose Case, sollevando il bavero della giacca. — Procureremo a quel povero cazzone un nuovo pancreas o qualcosa del genere.