Molly si appoggiò accanto a lui sulla ringhiera, con le mani abbandonate e distese.
— Già. Saremo venuti qui, una volta. O qui, o in qualche altro posto in Europa.
— Noi chi?
— Nessuno — rispose lei, con un’involontaria scrollata di spalle. — Hai detto che volevi schiacciare un pisolino. Dormi. Un po’ di sonno non farebbe male neanche a me.
— Già — mormorò Case, passandosi le mani sugli zigomi. — È davvero un gran bel posto.
La sottile fascia del sistema Lado-Acheson sfumò lentamente in un’imitazione astratta d’un tramonto alle Bermude, striato da sfilacciature di nubi registrate. — Già — ripeté Case. — Un sonnellino.
Ma il sonno non voleva venire. E quando infine venne, gli portò sogni che erano segmenti di ricordi rimontati in bell’ordine. Si svegliò più volte. Vide Molly acciambellata accanto a lui, e sentì il rumore dell’acqua, voci che arrivavano dai pannelli di vetro della vetrata del terrazzo rimasta spalancata, la risata di una donna dai condominii a gradoni sull’altro lato del pendio. La morte di Deane continuava a spuntare come una carta di malaugurio, anche se lui continuava a ripetersi che non era Deane. Che in realtà non era successo affatto. Una volta qualcuno gli aveva detto che la quantità di sangue in un corpo umano di medie dimensioni equivaleva all’incirca a una cassa di birra.
Tutte le volte che la testa frantumata di Deane colpiva la parete di fondo dell’ufficio, Case diventava consapevole di un altro pensiero, qualcosa di più buio e nascosto, che rotolava via, tuffandosi come un pesce, appena fuori della sua portata.
Linda.
Deane. Il sangue sulla parete dell’ufficio dell’importatore.
Linda. L’odore di carne bruciata fra le ombre della cupola di Chiba. Molly che gli porgeva una borsa piena di zenzero, la plastica imbrattata di sangue. Era stato Deane a farla uccidere.
Invernomuto. Immaginava un microcomputer che bisbigliava a un relitto d’uomo chiamato Corto, le parole che scorrevano come un fiume, la personalità piatta chiamata Armitage che l’aveva sostituito, concrescendo lentamente in qualche buia camera d’ospedale… L’analogo di Deane aveva detto che lavorava con quanto già c’era, approfittando delle condizioni preesistenti.
Ma se Deane, il vero Deane, avesse ordinato l’uccisione di Linda per decisione di Invernomuto? Case frugò nel buio alla ricerca di una sigaretta e dell’accendino di Molly. Non c’era nessun motivo di sospettare di Deane, si disse. Nessuno.
Invernomuto poteva costruire un certo tipo di personalità dentro un guscio. Quant’era subdola la forma che poteva assumere una manipolazione del genere? Schiacciò la Yeheyuan in un portacenere accanto al letto dopo la terza boccata, rotolò lontano da Molly e cercò di dormire.
Il sogno, la memoria, scorsero con la monotonia di un nastro simstim mal confezionato. Aveva passato un mese, durante la sua quindicesima estate, al quinto piano di un albergo a tariffa settimanale, con una ragazza chiamata Marlene. L’ascensore non funzionava da dieci anni come minimo. Gli scarafaggi pullulavano sulla porcellana ormai grigia del lavello intasato del cucinino tutte le volte che qualcuno accendeva la luce. Aveva dormito con Marlene su un materasso a righe prive di lenzuola.
Non si era accorto della prima vespa quando si era costruita una casa grigia, sottile come un foglio di carta, sulla vernice ulcerata del telaio della finestra, ma presto il nido era diventato un grumo di fibre grosso quanto un pugno, con gli insetti che ne sfrecciavano fuori verso il vicolo sottostante come elicotteri in miniatura, per andare a ronzare intorno al contenuto putrescente dei bidoni della spazzatura.
Quel pomeriggio, quando una vespa punse Marlene, avevano già bevuto una dozzina di birre a testa. — Uccidi quelle stronze! — aveva gridato lei, con gli occhi stravolti per la rabbia nell’immoto calore della stanza. — Bruciale! — Ubriaco, Case aveva frugato nel rancido armadio, cercando il drago di Rollo. Rollo era l’ex di Marlene, e a quell’epoca, come Case sospettava, ancora suo occasionale amichetto. Era un gigantesco motociclista di Frisco con una bionda saetta sbiancata in mezzo ai capelli neri tagliati a spazzola. Il drago era il lanciafiamme di Frisco, un aggeggio simile a una grossa torcia dalla testa ricurva. Case aveva controllato le batterie, scuotendolo per assicurarsi che ci fosse abbastanza combustibile, poi era andato alla finestra aperta. L’alveare aveva cominciato a ronzare.
L’aria dello Sprawl era piatta, immobile. Una vespa schizzò fuori dal nido e volò intorno alla testa di Case. Case schiacciò il pulsante dell’accensione, contò fino a tre e premette il grilletto. Il combustibile, pompato fino a 7 atm, schizzò oltre la resistenza arroventata. Una lingua di pallido fuoco, lunga cinque metri, e il nido carbonizzato cadde in strada. Dall’altra parte del vicolo qualcuno applaudì.
— Merda! — Marlene si dondolava alle sue spalle. — Stupido! Non le hai bruciate. Le hai soltanto spaventate. Adesso torneranno ad ammazzarci! — La voce di Marlene gli diede sui nervi, e l’immaginò avvolta dalle fiamme, i suoi capelli sbiancati che sfrigolavano d’un verde tutto speciale.
Giù nel vicolo, con il drago in pugno, si avvicinò al nido annerito. S’era spaccato, s’era aperto in due. Vespe bruciacchiate si dimenavano, cadendo sull’asfalto.
Vide ciò che il guscio di carta grigia aveva nascosto.
Orrore. La fabbrica delle nascite a forma di spirale, i terrazzi a gradini delle cellette dell’embriogenesi, le cieche mandibole dei non-nati che si muovevano incessanti, il graduale progredire dalla condizione di larva a quella di quasi vespa, a vespa. Nell’occhio della mente si manifestò una specie di fotografia differita a mostrargli quella cosa come l’equivalente biologico di una mitragliatrice, orrenda nella sua perfezione. Aliena. Schiacciò il grilletto dimenticandosi di premere l’accensione, e il combustibile sibilò sopra la vita rigonfia che continuava a contorcersi ai suoi piedi.
Quando infine schiacciò l’accensione, l’aggeggio esplose con un tonfo, portandogli via di netto un sopracciglio. Cinque piani più in su, dalla finestra aperta, sentì Marlene che rideva.
Si svegliò con l’impressione che la luce stesse sbiadendo, ma la stanza era al buio. Immagini residue, un vago lampeggiare sulla retina. Là fuori, il cielo stava accennando all’inizio di un’alba registrata. Non c’erano più voci, soltanto lo scorrere dell’acqua, molto più in basso lungo la facciata dell’Intercontinental.
Nel sogno, subito prima di inzuppare il nido delle vespe di combustibile, aveva visto il marchio T-A. della Tessier-Ashpool chiaramente inciso sul fianco, come se persino le vespe lavorassero per quelli.
Molly insisté per spalmargli addosso uno strato di abbronzante, affermando che il suo pallore tipico dello Sprawl avrebbe dato troppo nell’occhio.
— Cristo! — esclamò lui, nudo davanti allo specchio. — E tu pensi che sembrerà genuino? — Molly stava usando quel poco che ancora restava nel tubetto sulla caviglia sinistra, inginocchiata accanto a lui.
— No, però dà l’impressione che stai cercando di fingere che lo sia. Ecco. Non ce n’è a sufficienza per il piede. — La ragazza si rialzò e scagliò il tubetto vuoto in un capace cestino di vimini. Niente di quanto si trovava nella stanza dava l’impressione di essere stato fatto a macchina, o che fosse stato prodotto utilizzando materiali sintetici. Molto costoso, Case questo lo sapeva, ma era uno stile che l’aveva sempre irritato. La termopiuma dell’enorme letto era colorata in maniera da assomigliare alla sabbia. C’era parecchio legno chiaro, e anche tessuti fatti a mano.