— Che ne so? Ma voi aspettate.
— Aspetteremo, sì. — Il ragazzo si grattò il petto nudo. — Credo che quell’ultima parte si riferisca a un cubicolo. Il numero quarantatré.
— Sei atteso, Lupus? — Cath allungò il collo sopra la spalla di Brace. La corsa le aveva asciugato i capelli.
— Non proprio — disse Case. — È un problema?
— Scendi al livello e cerca il cubicolo del tuo amico. Se ti lasceranno entrare, bene. Se non vorranno riceverti… — Cath scrollò le spalle.
Case si voltò e scese una scala a chiocciola di ferro battuto dai motivi floreali. Dopo sei svolte raggiunse un night club. Fece una sosta per accendersi una Yeheyuan, dando un’occhiata ai tavoli. D’un tratto il Freeside gli parve avere un senso. Affari: poteva sentirli ronzare nell’aria. Questo era il punto in cui succedevano le cose. Non la facciata, il volto luccicante di rue Jules Verne, ma la roba vera, sostanziale. Il commercio. La danza. La folla era mista: forse una metà erano turisti, l’altra metà residenti delle isole.
— Giù — disse a un cameriere di passaggio. — Voglio andare di sotto. — Mostrò il chip del Freeside. L’uomo gli indicò con un gesto il fondo del locale.
Case attraversò in fretta i tavoli affollati, sentendo frammenti di una mezza dozzina di lingue europee mentre li costeggiava.
— Voglio un cubicolo — disse rivolto alla ragazza seduta dietro al basso bancone, con un terminale sulle ginocchia. — Il livello inferiore. — Le porse il chip.
— Preferenze di sesso? — La ragazza passò il chip davanti a una lastra di vetro sulla superficie del terminale.
— Femmina — rispose Case automaticamente.
— Numero trentacinque. Telefoni, se non è soddisfacente. Se vuole, può avere accesso alla nostra lista di servizi speciali. — Gli sorrise mentre gli restituiva il chip.
Un ascensore si aprì alle sue spalle.
Le luci del corridoio erano azzurre. Case uscì dalla cabina e scelse una direzione a caso. Porte numerate. Un silenzio come quello d’una clinica esclusiva.
Trovò il suo cubicolo. Stava cercando Molly. Disorientato, sollevò il chip e l’appoggiò contro un sensore nero piazzato subito sotto la piastra con il numero.
Serrature magnetiche. Il rumore gli ricordò il Cheap Hotel.
La ragazza si rizzò a sedere sul letto e disse qualcosa in tedesco. I suoi occhi erano morbidi e immobili. Pilota automatico. Azzeramento neurale. Case uscì in retromarcia dal cubicolo chiudendo la porta.
La porta del quarantatré era come le altre. Esitò. Il silenzio del corridoio confermava che i cubicoli erano insonorizzati. Era inutile tentare con il chip. Batté le nocche contro il metallo smaltato. Niente. La porta pareva assorbire il suono.
Appoggiò il chip contro la piastra nera.
Il chiavistello scattò.
In qualche modo lei parve colpirlo ancora prima che Case riuscisse ad aprire la porta. Lui si ritrovò in ginocchio, con la porta d’acciaio premuta contro la schiena, le lame dei pollici irrigiditi della ragazza che vibravano a pochi centimetri dai suoi occhi…
— Gesù Cristo — disse Molly, appioppandogli un buffetto sulla tempia mentre si rialzava. — Sei proprio un idiota a tentare una cosa del genere. Come diavolo hai fatto ad aprire quella serratura? Case… Case, tutto bene? — Tornò a chinarsi su di lui.
— Il chip — spiegò Case, cercando di riprendere fiato. Il dolore si stava propagando a partire dal torace. Molly lo aiutò ad alzarsi e lo spinse dentro il cubicolo.
— Hai corrotto l’inserviente di sopra?
Case scosse la testa mentre si lasciava cadere sul letto.
— Inspira — gli ordinò lei. — Conta. Uno, due, tre, quattro. Trattieni il fiato. Adesso espira. Conta…
Case si strinse lo stomaco.
— Mi hai tirato un calcio — riuscì a balbettare.
— Avrebbe dovuto finire più basso. Vorrei restare sola. Sto meditando, capisci? — Molly gli si sedette accanto. — E sto ricevendo istruzioni. — Gli indicò un piccolo monitor incassato nella parete di fronte al letto. — Invernomuto mi sta parlando di Straylight.
— Dov’è il pupazzo di carne?
— Non c’è. Quello è il servizio speciale più costoso di tutti. — Molly si alzò in piedi. Indossava jeans di cuoio e una camiciona scura. — L’operazione è per domani, secondo Invernomuto.
— Cos’era tutta quella menata al ristorante? Come mai sei scappata?
— Perché se fossi rimasta rischiavo di uccidere Riviera.
— Perché?
— Per quello che mi ha fatto. Lo spettacolo.
— Non capisco.
— Questo costa un sacco di quattrini — proseguì Molly, allungando la mano destra come se reggesse un frutto invisibile. Le cinque lame scivolarono all’esterno, poi si ritrassero, rapide. — Costa andare a Chiba, costa la chirurgia, costa fare in modo che ti colleghino il sistema nervoso in modo che i riflessi ingranino con le apparecchiature… Sai come ho trovato i soldi, quando ho cominciato? Qui, forse? No, non qui, ma in un posto come questo, nello Sprawl. Cominciare è uno scherzo, visto che una volta che ti piantano dentro il chip di sottrazione ti sembrano soldi facili. Talvolta ti svegli dolorante, ma è tutto. Affitti la merce, tutto qua. Tu non sei dentro quando succede. La casa ha il software di qualunque cosa il cliente sia disposto a pagare… — Fece scrocchiare le nocche delle dita. — Bene. Mi sono fatta i miei soldi. Il guaio era che il chip di sottrazione e i circuiti che le cliniche di Chiba inseriscono non erano compatibili. Insomma, le ore di “lavoro” cominciarono a filtrare, e io potevo ricordarle… Ma erano soltanto brutti sogni, non tutti così brutti. — Sorrise. — Poi, cominciò a diventare strano. — Tirò fuori le sigarette dalla tasca e ne accese una. — La casa scoprì quello che facevo con i soldi. Mi avevano già inserito le lame, ma la neuromotilità fine avrebbe richiesto altri tre viaggi. Non potevo ancora lasciar perdere il lavoro come pupazzo di carne. — Inspirò, poi esalò una voluta di fumo, coronandola con tre anelli perfetti. — Così il bastardo che dirigeva il posto fece preparare un software su misura. Berlino, è il posto giusto per gli snuff, per quei film, sai, in cui qualcuno finisce ucciso sul serio. Grande mercato per le porcate, Berlino. Non ho mai saputo chi scriveva il programma che m’inserivano, ma era basato su tutti i classici.
— Sapevano che capivi quello che succedeva, che eri cosciente mentre lavoravi?
— Non ero cosciente. È come il cyberspazio, ma è vuoto. Argentato. Odora di pioggia… Puoi vedere te stesso mentre hai l’orgasmo, è come una piccola nova che spunta dai confini dello spazio. Purtroppo cominciavo a ricordare. Come se fossero sogni, sai. E loro non me l’avevano detto. Avevano cambiato il software cominciando ad affittarmi ai mercati specializzati.
Sembrava che parlasse da molto lontano. — E io lo sapevo, ma me n’ero rimasta zitta e buona. Avevo bisogno dei soldi. I sogni divennero sempre peggiori, ma mi dicevo che alcuni almeno erano soltanto sogni, però a quel punto avevo capito che il mio capo aveva tutta una piccola clientela legata a me. Niente è abbastanza buono per Molly, mi dice il capo, e mi dà quell’aumento di merda. — Scosse la testa. — Quel coglione si faceva pagare otto volte di più di quello che passava a me, e credeva che non lo sapessi.
— Ma per cosa si faceva pagare?
— Brutti sogni. Sogni veri. Una notte… una notte ero appena tornata da Chiba. — Molly lasciò cadere la sigaretta, la schiacciò sotto il tacco e si sedette, appoggiandosi alla parete. — In quel viaggio i chirurghi erano andati parecchio a fondo. Un casino. Dovevano aver disturbato il chip di sottrazione. E rinvenni… rinvenni proprio in mezzo a quella routine con un cliente… — Affondò le dita nella termopiuma. — Era un senatore. Ho riconosciuto subito la sua faccia obesa. Eravamo tutti e due coperti di sangue. Non eravamo soli. Lei era tutta… — Diede uno strattone alla termopiuma. — Morta. E quel grasso coglione stava dicendo: “Cosa c’è? Cosa ti prende?”. Sì… perché non avevamo ancora finito.