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— Lady 3Jane. È ricca sfondata. Suo padre possiede tutto quello che vedi.

— Questo bar?

— Il Freeside!

— Merda! Ti dai a compagnie di classe, eh? — Inarcò un sopracciglio, poi le passò un braccio intorno alla vita e le appoggiò la mano sul fianco. — Allora, come hai fatto a incontrare questi aristocratici, Cathy? Sei una specie di debuttante dell’alta società sotto mentite spoglie? Tu e Bruce avete per caso incassato qualche vecchia eredità, eh? — Allargò le dita, massaggiandole la pelle sotto il leggero tessuto nero. Lei si strinse contro di lui assecondando il suo movimento. E rise.

— Oh, sai, le piacciono i party. Bruce e io facciamo il giro dei ricevimenti… Per lei le cose stanno diventando davvero noiose, là dentro. Il suo vecchio la lascia uscire di tanto in tanto, sempre che si porti dietro Hideo perché si prenda cura di lei — disse la ragazza, con le palpebre calate a metà in quella che doveva essere intesa come un’espressione pudibonda.

— Dov’è che diventa noioso?

— La chiamano villa Straylight. È lei che me l’ha detto… oh, è un bel posto, con tutte le piscine e i gigli. È un castello, un vero castello, tutto pietre e tramonti. — Si rannicchiò contro di lui. — Ehi, Lupus, amico, hai bisogno di un derma. Così potremo stare assieme.

Portava una minuscola borsetta di cuoio con una sottile cinghia da tracolla. Le unghie masticate fino alla carne erano di un rosa vivace sullo sfondo dell’abbronzatura potenziata. Aprì la borsetta per estrarne una bolla di carta trasparente con dentro un derma azzurro. Qualcosa di bianco cadde sul pavimento. Cath si chinò a raccoglierlo. Un origami a forma di gru.

— Me l’ha dato Hideo — spiegò. — Ha tentato di mostrarmi come si fa, ma io non riesco mai a farlo saltar fuori giusto. I colli mi vengono sempre piegati nel modo sbagliato. — Ricacciò nella borsetta il pezzo di carta ripiegato. Lui la seguì con lo sguardo mentre lacerava la bolla, staccava il derma dalla base e gliel’applicava al polso, facendolo aderire sul lato interno.

— 3Jane ha un viso affilato, il naso come il becco di un uccello? — Case osservò le proprie mani mentre abbozzava un profilo. — Capelli neri? Giovane?

— Credo di sì. Ma è ricca sfondata, sai. Con tutti quei soldi.

La droga lo colpì come un treno espresso, una bianca colonna incandescente che gli saliva lungo la schiena dalla regione della prostata illuminando le suture del suo cranio con raggi X di energia sessuale in cortocircuito. I suoi denti risuonarono nelle cavità come diapason, ognuno perfettamente intonato e limpido quanto l’etanolo. Le ossa, sotto il nebuloso involucro della carne, erano cromate e lucide, le giunture lubrificate con uno strato di silicone. Tempeste di sabbia infuriavano radenti sulla base del cranio, generando sottili e intense ondate elettrostatiche che si frangevano dietro i suoi occhi, sfere del più puro cristallo, che si dilatavano…

— Su — disse la ragazza, prendendolo per mano. — Adesso ci sei. Ci siamo tutti e due. Durerà per tutta la notte.

La rabbia stava esplodendo, spietata, esponenziale. Erompeva sull’impeto della betafenetilammina come un’onda portante, un fluido sismico, ricco e corrosivo. La sua erezione era una sbarra di piombo. I volti intorno a loro, lì nell’Emergency, erano come quelli delle bambole dipinte, il rosa e il bianco intorno e dentro la bocca si muovevano, si muovevano, le parole ne spuntavano come bolle separate di suono. Case guardò Cath e vide ogni singolo poro della pelle abbronzata, gli occhi piatti come vetro opaco, una sfumatura da metallo smorto, un gonfiore appena accennato, le minuscole asimmetrie del seno e delle clavicole, il… qualcosa lampeggiò bianco dietro i suoi occhi.

Case lasciò ricadere la mano e corse incespicando verso la porta, allontanando a spintoni chiunque gli ostacolasse il passaggio.

— Vai a farti fottere! — gli gridò Cath. — Stronzo di merda!

Case non riusciva più a sentire le gambe. Le usava come trampoli, dondolando follemente sul lastricato della Jules Verne, un lontano brontolio di tuono nelle orecchie, quello del proprio sangue, sciabolate di luce taglienti come rasoi che gli sezionavano il cranio da una dozzina di angoli diversi.

E poi si trovò paralizzato, ritto con i pugni serrati contro i fianchi, la testa inarcata, le labbra arricciate, tremanti, mentre osservava lo zodiaco del giocatore d’azzardo del Freeside, le costellazioni da night club nel cielo olografico, che si spostavano, slittando fluide lungo l’asse del buio, per sciamare come creature viventi nell’epicentro della realtà. Fino al momento in cui non si disposero, individualmente e a centinaia, a formare un gigantesco, singolo ritratto, un supremo monocromo punteggiato come le stelle contro il cielo notturno. Il volto di Linda Lee.

Quando finalmente fu in grado di guardare altrove, di abbassare gli occhi, Case scoprì che tutte le facce per strada erano rivolte verso l’alto, le facce dei turisti a passeggio immobilizzati dalla meraviglia. E quando le luci in cielo si spensero, un fragoroso evviva si sollevò dalla rue Jules Verne, rimbalzando in mille echi sui gradoni e sulle file di terrazzi di cemento lunare.

Da qualche parte, un orologio cominciò a scandire i suoi rintocchi, qualche antica campana arrivata dall’Europa.

Mezzanotte.

Case camminò fino al mattino.

L’eccitazione si dissolse, lo scheletro cromato si corrose a ogni ora che passava, la carne diventò sempre più solida, la carne della droga fu sostituita dalla carne della sua vita. Non riusciva a pensare. Gli piaceva moltissimo, essere cosciente ma incapace di pensare. Gli pareva quasi di riuscire a trasformarsi in qualunque cosa vedesse di fronte a sé: la panchina di un parco, uno sciame di falene bianche intorno a un antico lampione, un robot giardiniere a strisce diagonali nere e gialle.

Un’alba registrata avanzò lenta lungo il sistema Lado-Acheson, rosea e spettrale. Case si costrinse a mangiare un’omelette in un caffè sulla Desiderata, a bere un sorso d’acqua, a fumare l’ultima delle sue sigarette. Il giardino sulla sommità dell’Intercontinental cominciava ad animarsi quando l’attraversò. La folla mattutina della prima colazione intenta a bere caffè e a mangiare croissant sotto gli ombrelloni a strisce.

Sentiva ancora la rabbia. Era un po’ come essere aggredito in un vicolo e scoprire di avere ancora il portafoglio in tasca, indenne. Si riscaldò al suo fuoco, incapace di darle un nome o un obiettivo.

Scese in ascensore fino al proprio livello, frugandosi in tasca per cercare il chip di credito del Freeside che fungeva da chiave. Il sogno stava diventando reale, era qualcosa che avrebbe potuto fare. Stendersi sulla termopiuma e ritrovare il buio.

Lo stavano aspettando, in tre. I loro perfetti abiti sportivi e le abbronzature a stencil facevano risaltare le eleganti finiture tessute a mano della mobilia. La ragazza sedeva sul divano di vimini, con una pistola automatica appoggiata accanto, sul motivo a foglie stampato sul cuscino.

— Turing — disse. — Ti dichiaro in arresto.

PARTE QUARTA

Operazione Straylight

13

— Si chiama Henry Dorsett Case. — Poi la ragazza snocciolò l’anno e il luogo di nascita, il numero d’identificazione BAMA, e una sfilza di nomi che, un po’ per volta, riconobbe come gli pseudonimi da lui usati in passato.

— È qui da molto? — Case vide il contenuto della propria borsa sparpagliato sul letto, gli abiti sporchi divisi per tipo. La shuriken se ne stava sola soletta, fra i jeans e la biancheria intima, sulla termopiuma color sabbia.

— Dov’è Kolodny? — I due uomini sedevano affiancati sul divano, le braccia conserte sul petto abbronzato, catene d’oro identiche appese al collo. Case si avvide che la loro giovinezza era contraffatta, tradita da una certa rugosità delle nocche, un dettaglio che i chirurghi erano incapaci di eliminare.