— Un saggio di 3Jane — spiegò Finn, prendendo un Partagas. — L’ha scritto quando aveva dodici anni. Un corso di semiotica.
— Gli architetti del Freeside si sono dati un bel daffare per celare il fatto che l’interno del fuso è sistemato con la banale precisione dell’arredamento di una stanza d’albergo. A Straylight la superficie interna del guscio è incrostata da una disperata proliferazione di strutture, forme che fluiscono, s’intersecano, levandosi verso un solido nucleo di microcircuiti, il cuore societario del nostro clan, un cilindro di silicio crivellato da sottili gallerie per la manutenzione, alcune non più larghe della mano d’un uomo, dove si rintanano granchi intelligenti, i teleguidati, pronti a individuare le avarie micromeccaniche o i segni di sabotaggio.
— È lei che hai visto al ristorante — disse Finn.
— Secondo gli standard dell’arcipelago la nostra è una vecchia famiglia, e le circonvoluzioni della nostra casa ne riflettono l’età — continuò la testa. — Ma riflettono anche qualcos’altro. La semiotica della villa rivela un’introversione, una negazione del vuoto abbagliante fuori dal guscio. I Tessier e gli Ashpool hanno scalato il pozzo gravitazionale per scoprire che odiavano lo spazio. Costruirono il Freeside per attingere alle ricchezze delle nuove isole, divennero ricchi ed eccentrici e iniziarono la costruzione di un corpo esteso a Straylight. Ci siamo asserragliati dietro i nostri soldi, crescendo verso l’interno, generando un universo fatto d’un solo pezzo, tutto per noi. Villa Straylight non conosce alcun cielo, registrato o altro. Nel nucleo di silicio della villa c’è una piccola stanza, la sola camera rettilinea del complesso, dove, su un semplice piedistallo di vetro, riposa un busto decorato, di platino e smalto, costellato di lapislazzuli e perle. Le piccole sfere luminose dei suoi occhi sono state tagliate dagli oblò di rubino sintetico della nave che portò il primo dei Tessier su dal pozzo e poi tornò a prendere il primo degli Ashpool…
La testa sprofondò nel silenzio.
— Allora? — domandò Case alla fine, quasi si aspettasse che la testa gli rispondesse.
— È tutto quello che ha scritto — disse Finn. — Non l’ha finito. Era soltanto una ragazzina. Questo affare è una specie di terminale di rappresentanza. Ho bisogno di Molly là dentro, con la parola giusta nel momento giusto. Sta qui il trucco. Non significa una sega quanto in profondità tu e il Flatline riuscite a spingervi con quel virus cinese se questo affare non sente la parolina magica.
— Allora, quale sarebbe questa parola?
— Non lo so. Potresti quasi dire che io sono fondamentalmente definito dal fatto che non lo so, perché non posso saperlo. Io sono colui che non conosce la parola. Se tu la conoscessi, amico, e me la dicessi, io non potrei saperla. È codificato nell’hardware. Qualcun altro deve apprenderla e portarla qui, proprio quando tu e il Flatline penetrerete attraverso quell’ice e scompiglierete i nuclei.
— E dopo cosa accadrà?
— Dopo, io non esisterò più. Io cesserò di esistere.
— A me va bene — disse Case.
— Sicuro. Ma attento al culo, Case. Il mio… ehm… altro lobo ci è addosso, a quanto pare. Un roveto ardente assomiglia a un altro. E Armitage sta partendo.
— E questo cosa significa?
Ma la stanza rivestita di pannelli si ripiegò su se stessa in una dozzina di angoli impossibili, allontanandosi roteante nel cyberspazio come un origami a forma di gru.
15
— Stai cercando di stracciare il mio record, figliolo? — chiese il Flatline. — Per cinque secondi sei stato di nuovo un cervello morto.
— Tìenti stretto — replicò Case, e attivò l’interruttore del simstim.
Molly era rannicchiata nel buio, le mani premute contro il ruvido cemento.
CASE CASE CASE CASE… Il display digitale pulsava il suo nome in caratteri alfanumerici, Invernomuto la stava informando del collegamento.
— Grazioso — disse Molly. Oscillò sui tacchi e si sfregò le mani facendo schioccare le nocche. — Cosa ti ha trattenuto?
È IL MOMENTO MOLLY È IL MOMENTO.
Molly premette con forza la lingua contro gli incisivi inferiori. Un dente si mosse appena, attivando gli amplificatori del microcanale, e quando il casuale rimbalzo dei fotoni attraverso l’oscurità fu convertito in un impulso elettronico il cemento intorno a lei risaltò granuloso e pallido come un fantasma. — Va bene, tesoro. Adesso usciamo a giocare.
Il suo nascondiglio risultò essere un qualche tipo di galleria di servizio. Molly strisciò fuori attraverso una elaborata griglia di ottone ossidato montata su cardini. Case vide quel tanto che bastava delle braccia e delle gambe per sapere che indossava di nuovo la tuta di policarburo. Sotto la plastica avvertì la familiare tensione del cuoio sottile e teso. C’era qualcosa appeso sotto il braccio, in una imbracatura o in una fondina. Molly si rizzò, aprì la lampo della tuta e sfiorò la plastica a scacchi del calcio di una pistola.
— Ehi, Case, mi stai ascoltando? — chiese, a stento udibile. — Ti racconto una storia… Avevo questo ragazzo, una volta. In un certo senso tu me lo ricordi… — Si girò a ispezionare il corridoio. — Johnny, si chiamava.
Lungo il corridoio basso dal soffitto a volta erano allineate decine di bacheche da museo, sostanzialmente casse dall’aspetto arcaico, di legno marrone con un vetro sul davanti. In quel luogo avevano un aspetto goffo al confronto delle curve funzionali delle pareti del corridoio, come se fossero state portate lì e messe in fila per qualche scopo dimenticato. Applique di ottone opaco sorreggevano globi di luce bianca a intervalli d’una decina di metri. Il pavimento era irregolare, e a mano a mano che si addentrava lungo il corridoio Case si rese conto che erano centinaia di tappeti e tappetini stesi alla rinfusa. In alcuni punti ce n’erano perfino cinque o sei sovrapposti: il pavimento era un morbido patchwork di lana tessuta a mano.
Molly prestò scarsa attenzione alle bacheche e al loro contenuto, il che lo irritò. Dovette accontentarsi di occhiate per niente interessate, il che gli permise d’intravedere soltanto frammenti di vasellame, armi antiche, un oggetto così fittamente irto di chiodi arrugginiti da risultare irriconoscibile, frammenti sfilacciati di arazzi…
— Sai, il mio Johnny era sveglio, un ragazzo davvero in gamba. Aveva cominciato come deposito segreto a Memory Lane, con i chip nella testa, e la gente pagava per nasconderci dentro i dati. Aveva gli yak alle calcagna, la notte che lo incontrai, e io feci fuori il loro assassino. Fu più fortuna che altro, ma lo feci per lui. E dopo, fu tanto intimo e dolce, Case. — Le sue labbra si muovevano appena. La sentì formare parole: non aveva bisogno di sentirgliele pronunciare ad alta voce. — Disponendo d’una sonda, eravamo in grado di leggere le tracce di tutto quello che aveva registrato, nonostante fosse protetto. Passammo ogni cosa su un nastro magnetico, poi cominciammo a prendere di mira dei clienti scelti… ex clienti. Io provvedevo a incassare, facevo la gorilla e il cane da guardia. Ed ero davvero felice. Tu, Case, sei mai stato felice? Lui era il mio ragazzo. Lavoravamo insieme. Soci. Ero uscita dalla casa dei pupazzi da circa otto settimane quando lo conobbi… — Fece una pausa, girò intorno a una curva secca e proseguì. Altre bacheche di legno lucido, con le pareti di un colore che gli ricordava le ali degli scarafaggi.
— Eravamo intimi, dolci, sincronizzati come due orologi. Ci pareva che nessuno avrebbe mai potuto farci del male. Io non gliel’avrei permesso. Immagino che la Yakuza volesse ancora fare la pelle a Johnny. In fondo io avevo ucciso il loro uomo. E Johnny li aveva fregati. E gli yak possono permettersi di muoversi con tanta schifosa lentezza, amico mio: sono capaci di aspettare anni e anni, pazienti come un ragno, così hai più da perdere. Ragni zen. Allora non lo sapevo. Oppure, se lo sapevo, immaginavo che non valesse per noi. Come quando sei giovane e credi di essere unico. Io ero giovane. Poi arrivarono, proprio quando pensavamo di aver fatto abbastanza soldi per potercene andare, chissà, forse in Europa. Non che qualcuno di noi due sapesse cosa avremmo fatto una volta laggiù, non avendo la minima prospettiva. Però sguazzavamo nei quattrini, conti orbitali svizzeri e una tana piena di giocattoli e di mobili. Toglie mordente al tuo gioco. Insomma, il primo che hanno mandato era il massimo. Riflessi come non ne hai mai visti, innesti, stile a sufficienza per dieci criminali di prim’ordine. Ma il secondo era, non so, un monaco. Clonato. Un killer di pietra, dalle cellule in su. Ce l’aveva dentro, la morte, quel silenzio che irradiava da lui come una nube… — La sua voce si spense quando il corridoio si diramò in due identiche rampe di scale che scendevano. Molly prese quella di sinistra.