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— Sì — rispose Case, mentre le lacrime continuavano a scendere. — Immagino di conoscerlo… signore — aggiunse d’impulso. — Ma, signore, colonnello, cosa dobbiamo fare esattamente? Adesso, voglio dire.

— Il nostro dovere, a questo punto, consiste nel fuggire, Case. Scappare, evadere. Possiamo arrivare al confine finlandese per il tramonto di domani. Volo radente sulle cime degli alberi, come da manuale. Per il rotto della cuffia, ragazzo. Ma quello sarà soltanto l’inizio. — Gli occhi azzurri si ridussero a due fessure sopra gli zigomi abbronzati resi viscidi dalle lacrime. — Soltanto l’inizio. Il tradimento dall’alto, dall’alto… - S’allontanò dalla telecamera, macchie scure sulla maglietta di cotone a coste. Il volto di Armitage era stato come una maschera, impassibile, ma quella di Corto era la vera maschera dello schizoide, la malattia incisa in profondità nei muscoli involontari, rovinava il costosissimo lavoro di chirurgia.

— Colonnello, la sento. Mi stia a sentire, colonnello, d’accordo? Voglio che lei apra il… ah, merda, com’è che si chiama, Dix?

— La camera stagna nell’area di servizio mediana — rispose il Flatline.

— Apra la camera stagna nell’area di servizio mediana. Dica soltanto alla sua consolle centrale di aprirla, d’accordo? Saremo lassù con lei in un batter d’occhio, colonnello. Poi potremo parlare su come uscire di lì.

La losanga svanì.

— Ragazzo, credo proprio di non averci capito un acca, stavolta — disse il Flatline.

— Le tossine — replicò Case — le merdosissime tossine. — E si scollegò.

— Veleno? — Maelcum guardò da sopra la spalla graffiata della sua vecchia tuta Sanyo azzurra mentre Case lottava per liberarsi dalla rete-g.

— E toglimi di dosso questo maledetto affare… — Uno strattone al catetere texano. — È come un veleno al rallentatore, e quel testa di cazzo là sopra sa come combatterlo, e adesso è più matto di un sorcio merdaiolo. — Armeggiò con la Sanyo rossa, dimentico di come funzionavano le chiusure.

— Il capo ti ha avvelenato? — Maelcum si grattò la guancia. — Ho un equipaggiamento medico, sai.

— Maelcum, Cristo, dammi una mano con questa dannatissima tuta.

Lo zionita s’allontanò con un calcio dal modulo di pilotaggio rosa. — Calma, amico. Misura due volte, taglia soltanto una, dice il saggio. Arriveremo là sopra…

Cera aria nella passerella allungabile che conduceva dalla camera stagna di poppa del Marcus Garvey a quella analoga nell’area di servizio mediana dello yacht Haniwa, ma tennero ugualmente sigillati gli scafandri. Maelcum coprì il tragitto con la grazia di un ballerino, fermandosi soltanto una volta ad aiutare Case che era goffamente inciampato quand’era uscito dal Garvey. Il rivestimento di plastica bianca del tubo filtrava la cruda luce del sole. Non c’erano ombre.

La camera a tenuta stagna del Garvey era rattoppata e butterata, decorata con un Leone di Zion inciso con il laser. Il boccaporto dell’area di servizio mediana dell’Haniwa era color grigio crema, libero e intatto. Maelcum infilò la mano guantata in uno stretto andito. Case vide muoversi le dita. Alcuni led rossi si accesero nel recesso, contando alla rovescia a partire da cinquanta. Maelcum ritirò la mano. Case, con un guanto appoggiato al portello, sentì le vibrazioni del meccanismo della camera stagna attraverso la tuta e le ossa. Il segmento rotondo dello scafo cominciò a ritirarsi dentro il fianco dell’Haniwa. Maelcum afferrò il recesso con una mano e Case con l’altra. La camera li portò con sé.

Lo yacht Haniwa era un prodotto dei cantieri Dornier-Fujitsu, l’interno era stato realizzato secondo una filosofia del design simile a quella delle Mercedes che li avevano scarrozzati per Istanbul. La stretta area mediana aveva le pareti rivestite di finto ebano e il pavimento coperto da piastrelle italiane di colore grigio. Case ebbe l’impressione d’invadere la privacy di qualche stazione termale da ricconi passando per la doccia. Lo yacht, che era stato assemblato in orbita, non era mai stato concepito per il rientro, quindi la sua linea levigata simile a quella di una vespa era stile allo stato puro, e ogni cosa all’interno era stata calcolata per aumentare l’impressione complessiva di grande velocità.

Quando Maelcum si tolse il casco ammaccato, Case lo imitò. Rimasero sospesi nella camera stagna, con l’aria che sapeva leggermente di pino. Sotto l’odore di pino, ce n’era un altro, inquietante, d’isolante bruciato.

Maelcum annusò. — Guai qui, amico. Su qualunque barca, se senti questo odore…

Una porta imbottita con ultracamoscio grigio scuro scivolò senza far rumore dentro il suo ricettacolo. Maelcum scalciò la parete d’ebano e veleggiò con una manovra perfetta attraverso la stretta apertura, piegando le ampie spalle all’ultimissimo istante. Case lo seguì impacciato, aiutandosi con le mani lungo una ringhiera imbottita che gli arrivava alla cintura. — Il ponte laggiù — disse Maelcum, indicando il fondo di un corridoio privo di giunture, dalle pareti color panna.

Si scagliò in avanti con un altro calcio, senza sforzo apparente. Da qualche punto più avanti, Case udì provenire il familiare ticchettio di una stampante che stava sfornando copie cartacee. Il rumore si fece più intenso quando seguì Maelcum attraverso un’altra porta, dentro una massa turbinante di tabulati aggrovigliati. Strappò un pezzo di quel nastro convoluto di carta e gli gettò un’occhiata:

00000000
00000000
00000000

— Sistema in bomba? — Lo zionita puntò un dito guantato verso le colonne di zeri.

— No — rispose Case mentre afferrava il suo casco che andava alla deriva. — Il Flatline ha detto che Armitage ha cancellato tutti i dati dell’Hosaka che aveva là dentro.

— Da odore pare che cancellati con il laser, sai. — Lo zionita fece pressione con il piede contro la gabbia bianca di una macchina svizzera da ginnastica e schizzò attraverso il labirinto galleggiante di carte, sbattendo le mani per allontanarle dal viso.

— Case, amico…

Il piccolo giapponese aveva la gola legata con il filo d’acciaio allo schienale di una stretta sedia snodata. Il filo era invisibile dove passava sopra la nera termopiuma del poggiatesta, e aveva inciso in profondità la laringe dell’uomo. Una singola sfera di sangue scuro s’era coagulata in quel punto, come una bizzarra pietra preziosa, una perla rosso cupo. Case vide le rozze maniglie di legno penzolare a entrambe le estremità della garrota, come logore sezioni di un manico di scopa.

— Per quanto tempo l’avrà avuto addosso? — disse, ricordando il pellegrinaggio post-bellico di Corto.

— Il capo sa come pilotare una nave, Case?

— Forse. Era delle forze speciali.

— Be’, questo ragazzo giapponese, lui non pilota più. Dubito io stesso potrei mai riuscire. Barca molto nuova…

— Allora trova il ponte.

Maelcum aggrottò la fronte, ruotò all’indietro e scalciò.

Case lo seguì in uno spazio più grande, una specie di salotto, facendo a pezzi e appallottolando i frammenti di tabulato che gli si agganciavano al suo passaggio. Vide altre seggiole snodate, qualcosa che assomigliava a un bar, e l’Hosaka. La stampante, che continuava a vomitare la sua fragile lingua di carta, era un’unità incorporata nella paratia, una netta fessura in un pannello rivestito con una impiallacciatura levigata a mano. Si issò sopra il cerchio di sedie per raggiungerla, quindi schiacciò un interruttore bianco sulla sinistra della fenditura: il ticchettio cessò. Case si girò verso l’Hosaka. La sua superficie era stata trapanata almeno una dozzina di volte. I fori erano piccoli, circolari, con gli orli anneriti. Minuscole sfere luccicanti di lega orbitavano intorno al computer morto. — Hai indovinato — disse a Maelcum.