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— Non esserne tanto sicura — disse Franz. Poi aggiunse, per stuzzicarla: — Ma forse le note del clavicembalo sono troppo metalliche per fare magìa.

— Detesto questa definizione — rispose lei — comunque ti sbagli. Anche con le note metalliche (bah!) si può fare della magìa. Ricorda le campanelle di Papageno: nel Flauto magico la magìa assume varie forme.

Mangiarono i toast e le uova, bevvero il succo d’arancia. Franz parlò a Cal della sua decisione di spedire il manoscritto delle Torri del tradimento così com’era.

— Così, i miei lettori continueranno a ignorare il rumore fatto da una macchina distruggidocumenti quando lavora, ma che importa? Ho visto il programma alla televisione, ma quando il mago dei satanisti ha infilato nella macchina la pergamena con le rune magiche, hanno fatto uscire del fumo, che mi sembra una soluzione un po’ stupida.

— Sono contenta di sentirtelo dire — osservò lei, irritata. — Ti sforzi troppo di dare una logica a quel programma cretino. — Poi sorrise. — Comunque, forse hai ragione tu. In parte è dovuto al fatto che cerchi sempre di fare del tuo meglio in tutto, ed è per questo che ti giudico un vero professionista.

Franz sentì un’altra fitta di rimorso, ma riuscì facilmente a vincerla.

Mentre Cal gli versava un’altra tazza di caffè, lui disse: — Mi è venuta una bella idea. Andiamo a Corona Heights, oggi. Da lassù si dovrebbe vedere bene il panorama del centro e della baia interna. C’è il tram per quasi tutto il tragitto, e poi non dovrebbe rimanere molto da arrampicarsi.

— Dimentichi che devo esercitarmi per il concerto di domani sera. E, poi, non posso rischiare di rovinarmi le mani — rispose lei, in tono di leggero rimprovero. — Ma non lasciarti fermare da me — aggiunse, con un sorriso, come per chiedergli scusa. — Perché non chiedi a Gunnar o a Saul di accompagnarti? Credo che oggi siano a casa. E Gunnar è abilissimo, se c’è da arrampicarsi. Dov’è Corona Heights?

Franz glielo riferì, e si ricordò che l’amore di Cal per San Francisco non era fresco e appassionato come il suo: lui aveva lo zelo del neofita.

— Dev’essere vicino al Buena Vista Park — commentò Cal. — Non andare a spasso da quelle parti, ti prego. Ci sono stati alcuni delitti, recentemente. Qualche regolamento di conti, legato al mondo della droga. L’altro lato del Buena Vista è vicinissimo all’Haight.

— Non ne ho alcuna intenzione — la rassicurò lui. — Anche se forse sei un po’ troppo prevenuta nel giudicare l’Haight. Si è calmato molto, negli ultimi anni. Anzi, questi due libri li ho comprati proprio laggiù, in una di quelle favolose librerie antiquarie.

— Oh, sì, mi avevi promesso di mostrarmeli — disse lei.

Franz le porse quello che stava aperto sul tavolino, e spiegò: — È uno dei più affascinanti libri di pseudo scienza che abbia mai visto: ci sono delle ispirazioni davvero geniali, in mezzo alle idiozie. Manca la data, ma dev’essere stato pubblicato attorno al 1900, secondo me.

— Megalopolisomanzia — pronunciò Cal, leggendo con attenzione le sillabe. — Che cosa vuol dire? Predire il futuro mediante… mediante la lettura delle città?

— La lettura delle grandi città — corresse lui, con un cenno d’assenso.

— Già, il “mega”.

Franz proseguì: — Predire il futuro e varie altre cose. E, a quanto pare, servirsi di questa conoscenza per fare magìa. Anche se De Castries la definisce “una nuova scienza”, come se lui fosse un altro Galileo. Comunque, De Castries era molto preoccupato per gli “immensi quantitativi” di acciaio e di carta che si accumulano nelle grandi città. E per l’“olio di carbone” (gasolio) e per il gas naturale. E anche per l’elettricità, benché la cosa appaia incredibile, perché calcola accuratamente tutta l’elettricità che c’è in tante migliaia di chilometri di filo, e quante migliaia di tonnellate di gas da illuminazione ci sono nei gasometri, quanto acciaio nei nuovi grattacieli, quanta carta negli archivi statali e nei giornali scandalistici e così via.

— Oh poveri noi! — commentò Cal. — Chissà cosa direbbe, se vivesse al giorno d’oggi.

— Che si sono realizzate le sue predizioni più allarmanti, senza dubbio. Lui ha fatto ipotesi sulla crescente minaccia delle automobili e della benzina, ma soprattutto delle auto elettriche, che portano in giro, nelle batterie, secchi e secchi di corrente continua. Ed è andato assai vicino a prevedere il nostro problema dell’inquinamento: parla addirittura della “vasta congerie di giganteschi tini fumiganti” pieni di acido solforico, occorrenti per la fabbricazione dell’acciaio.

“Ma la cosa che lo preoccupava di più erano gli effetti psicologici o spirituali (lui li chiama ‘paramentali’) di tutto quel che si accumula nelle grandi città, della sua pura e semplice massa, solida e liquida.”

— Un vero hippy ante-litteram — osservò Cal. — E che razza di persona era? Dove abitava? Che cos’altro faceva?

— Nel libro non c’è nessuna indicazione di queste cose — rispose Franz — e in biblioteca non ho trovato nessun riferimento a lui. Nel libro parla spesso del New England e della costa orientale del Canada, e anche di New York, ma solo in generale. Parla di Parigi (ce l’aveva con Parigi per via della torre Eiffel) e della Francia, e cita anche l’Egitto.

Cal annuì. — E che cos’è l’altro libro?

— Una cosa molto interessante — disse Franz, porgendoglielo. — Come vedi, non è un libro vero e proprio, ma un diario di fogli bianchi, di carta di riso, sottile come la carta velina, ma più opaca, rilegato in tessuto di seta a coste che doveva essere color rosa tea, prima di sbiadire. Gli appunti, scritti con una stilografica dalla punta molto fine, e con un inchiostro viola, occupano circa un quarto del volume. Le altre pagine sono in bianco. Quando li ho comprati, i due libri erano legati insieme con un vecchio pezzo di spago. Dovevano essere rimasti così per decenni: vedi, ci sono ancora i segni.

— Già — riconobbe Cal. — Dal 1900, allora. Che bel diario, mi piacerebbe averne uno identico.

— Vero, eh? Comunque, non possono averli uniti prima del 1928. Un paio di annotazioni portano la data, e sembra che l’intero diario sia stato compilato nel giro di qualche settimana.

— Era un poeta? — chiese Cal. — Vedo qui delle righe della stessa lunghezza. E sai chi fosse? Il vecchio De Castries?

— No, non era De Castries, anche se era una persona che lo conosceva e che aveva letto il suo libro. Ma credo anch’io che fosse un poeta. Anzi, penso di avere scoperto chi fosse, anche se non è facile averne la certezza, perché non mette mai la firma. Ma doveva essere Clark Ashton Smith.

— È un nome che ho già sentito — disse Cal.

— Probabilmente, l’avrai sentito da me — ammise Franz. — Anche lui scriveva storie di orrore sovrannaturale. Racconti ricchissimi e tragici: cineserie alla maniera delle Mille e una notte. Un’atmosfera tra l’ironico e il macabro, come quella del libro Death’s Jest-Book, di Beddoes. Viveva non lontano da San Francisco e conosceva il vecchio circolo di artisti locali. Una volta è andato a trovare George Sterling a Carmel, e potrebbe essersi trovato qui a San Francisco nel 1928, quando cominciava a scrivere le sue storie migliori.

“Ho fatto una fotocopia del diario e l’ho data a Jaime Donaldus Byers, che è un esperto sulla figura di Smith e che abita qui a Beaver Street. Che, a proposito, è proprio vicino a Corona Heights, l’ho visto sulla cartina. Lui l’ha fatta vedere a De Camp, che la ritiene veramente di Smith, e a Roy Squires, che non ne è tanto sicuro. Byers non sa cosa dire. A quel che afferma, non ci sono prove che Smith si sia fermato così a lungo a San Francisco in quel periodo, e anche se la scrittura assomiglia effettivamente a quella di Smith, è molto più agitata dei campioni in suo possesso. Però, io ho l’impressione che Smith abbia tenuto segreto il viaggio, e che in quel periodo avesse dei buoni motivi per essere un po’ agitato.”