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Cominciò a salire la scala, ma si fermò quasi subito nel sentir parlare Gunnar e Saul, al piano di sopra. Non voleva vedere nessuno dei due, in quel momento; per prima cosa, semplicemente perché non se la sentiva di condividere con altre persone, diverse da Cal, il suo umore e i suoi progetti di quel giorno; dopo qualche istante, però, nell’ascoltare le loro parole sempre più chiare e più nitide, i suoi motivi divennero più ingarbugliati.

Gunnar: — Ma cos’è successo?

Sauclass="underline"  — Sua madre l’ha mandata a chiedere se uno di noi ha perso un registratore a cassette. Secondo lei, la cleptomane del secondo piano ne ha uno che non è suo.

Gunnar osservò: — “Cleptomane” non è una parola un po’ troppo difficile, per la signora Luque?

Saul rispose: — Oh, mi pare che abbia detto “fregona”. Io ho spiegato alla ragazza che il mio è ancora qui.

Gunnar chiese: — Ma perché Bonita non è venuta a chiederlo anche a me?

Saul rispose: — Perché le ho detto che non hai un registratore a cassette. Che ti piglia, ti senti escluso?

— No!

Durante il dialogo, il tono di Gunnar era diventato sempre più irritato, mentre quello di Saul si era raggelato progressivamente, ma con una punta di ironia. Franz aveva sentito vaghe supposizioni sul grado di omosessualità a cui forse giungeva l’amicizia tra Gunnar e Saul, ma era la prima volta che si chiedeva sul serio se ci fosse del vero. No, decisamente, non era il momento di intromettersi.

Saul insistette: — Allora, che c’è? Accidenti, Gun, lo sai che scherzo sempre con Bonita.

In tono quasi indispettito, Gunnar chiese allora: — So di essere un nordeuropeo puritano, ma vorrei sapere fin dove è giusto spingere la liberazione dal tabù anglosassone dei contatti fisici.

E in tono quasi di sfida, Saul rispose: — Be’, fin dove le due parti in causa lo ritengono opportuno, credo.

Qualcuno chiuse la porta, sbattendola. Poi qualcun altro lo imitò. Infine, silenzio. Franz trasse un respiro di sollievo, continuò a salire in punta di piedi… e quando arrivò nel corridoio del quinto piano si trovò quasi a faccia a faccia con Gunnar, fermo davanti alla porta chiusa della sua stanza e intento a fissare con irritazione la porta di Saul. Sul pavimento accanto a lui c’era un oggetto rettangolare, alto fino al ginocchio, in una custodia rivestita di tessuto grigio e con una maniglia metallica.

Gunnar Nordgren era un uomo alto e magro, con i capelli chiarissimi, un vichingo incivilito. Spostò lo sguardo per fissare Franz, e per un momento mostrò un imbarazzo non diverso dal suo. Poi, di colpo, ritornò alla solita giovialità e disse: — Sono contento di vederti. Un paio di giorni fa, mi hai chiesto delle macchine distruggidocumenti. Qui ne ho una, me la sono fatta prestare dall’ufficio fino a oggi.

Alzò il rivestimento, e apparve una cassetta di colore azzurro e argento, munita, nella parte alta, di una feritoia larga una trentina di centimetri, in alto, e di un pulsante rosso. In basso, come poté vedere Franz quando si fu avvicinato, c’era un cestino di rete metallica con qualche centimetro di ritagli di carta a forma di rombo, grossi come un’unghia, che sembravano una nevicata sporca di fuliggine.

Il senso di imbarazzo era del tutto sparito. Alzando lo sguardo, Franz disse: — So che devi andare al lavoro eccetera eccetera, ma potrei sentire il rumore che fa quando è in funzione?

— Certo. — Gunnar aprì la porta, dietro di lui, e fece entrare Franz in una stanza piccola, arredata con pochi mobili: i primi particolari che colpivano l’occhio erano alcune grosse fotografie a colori di corpi astronomici e l’attrezzatura da sci. Mentre srotolava il cavo e lo infilava nella presa, Gunnar spiegò: — Questo è uno “Stracciafogli” della Destroyist. Nomi quanto mai adatti, vero? Il suo unico difetto è di costare cinquecento dollari. I modelli più grossi arrivano anche a duemila. C’è una serie di lame circolari che taglia la carta in strisce, poi ce n’è una seconda serie che le trancia nell’altro senso. Forse non ci crederai, ma queste macchine derivano da quelle per fare i coriandoli. L’idea mi affascina: pare suggerire che l’umanità pensa prima a costruire macchine per il divertimento, e solo in un secondo tempo le usa per fare qualcosa di serio, se possiamo definire serio questo impiego. Insomma, prima viene il gioco, poi il senso di colpa.

Parlava con una soddisfazione o un sollievo tali che Franz dimenticò la sorpresa provata al primo istante, nel constatare che Gunnar si era portato a casa quella macchina. Che cosa aveva distrutto? Gunnar continuò: — Gli ingegnosi italiani… come ha detto Shakespeare? “I veneziani superacuti”?… Be’, sono all’avanguardia mondiale nell’inventare macchine per produrre cose da mangiare e divertimenti. Gelatiere, macchine per la pasta, macchine per il caffè espresso, fuochi pirotecnici, pianole meccaniche… e coriandoli. Ecco qua.

Franz aveva preso di tasca un taccuino e una penna biro. Quando Gunnar accosto la mano al pulsante rosso, lui tese l’orecchio, con cautela, aspettandosi di udire un rumore piuttosto forte.

Invece, udì solo un debole ronzìo, un mormorio, come se il Tempo stesso si schiarisse la gola.

Felice del suggerimento, Franz annotò esattamente quelle parole.

Gunnar inserì un foglio di carta colorata. Una neve celeste scese su quella grigiastra. Il suono divenne appena più forte.

Franz ringraziò Gunnar e lo lasciò ad arrotolare il cavo. Nel salire le scale, oltre il proprio piano, oltre il settimo, fino al terrazzo, provava una forte soddisfazione. L’aver potuto annotare quel dato di fatto era stato proprio il piccolo colpo di fortuna che gli occorreva per iniziare in modo perfetto la giornata.

5

La cabina a forma di cubo che racchiudeva il meccanismo dell’ascensore era come il covo di un mago in cima a una torre: il lucernario era coperto da uno spesso strato di polvere, il motore elettrico sembrava uno gnomo dalle spalle larghe e dall’armatura verde e unta, i vecchi relè assomigliavano a otto zampe nere di ghisa; quando erano in funzione, sussultavano come le zampe di un gigantesco ragno incatenato, e i grossi interruttori di rame scattavano rumorosamente, come le mandibole del ragno, nell’aprirsi e nel chiudersi quando veniva schiacciato uno dei pulsanti di comando.

Franz aprì la porta e si trovò sul terrazzo piano, circondato da un basso parapetto. La ghiaia che si staccava dalla copertura di catrame scricchiolava leggermente sotto i suoi passi. Il venticello fresco che spirava lassù era quanto mai piacevole.

A est e a nord si scorgeva la grande mole dei palazzi del centro cittadino e di tutti gli spazi segretamente contenuti in essi, che nascondevano la baia. Come si sarebbe accigliato il vecchio Thibaut nello scorgere la Transamerica Pyramid e il mostro marrone-violaceo della Bank of America! O anche i nuovi grattacieli dell’Hilton e del St Francis. Gli tornarono alla mente alcune parole: “Gli antichi egizi si limitavano a seppellire i morti nelle loro piramidi. Noi ci abitiamo”. Dove le aveva lette? Ma certo, nella Megalopolisomanzia. Molto calzante. E chissà se anche le piramidi moderne contenevano segni segreti che predicevano il futuro e cripte in cui praticare la magìa?

Oltrepassò i comignoli rettangolari degli stretti condotti di aerazione, rivestiti di lamiera grigia, e raggiunse la parte posteriore del tetto, per poi guardare, in mezzo ai grattacieli vicini (di altezza modesta, a paragone di quelli del centro) la torre della TV e Corona Heights. La nebbia era sparita, ma la pallida gobba irregolare della collina spiccava ancora nitida nel sole del mattino. Provò a guardare con il binocolo, senza eccessive speranze, e… sì, per Dio!… il pazzo sacerdote dalla tunica ampia, o quel che diavolo era, stava ancora là, impegnato nella sua cerimonia mattutina. Se solo il binocolo non avesse ballato tanto! Adesso il tizio era sceso su un ammasso di rocce posto un poco al di sotto del precedente, e si guardava attorno, con aria furtiva. Franz seguì la direzione del suo sguardo lungo il versante della montagnola, e subito scorse il presumibile oggetto del suo interesse: due che salivano a piedi, lentamente. Era facile distinguerli, con le loro camicie allegre e gli short a colori vivaci. Eppure, nonostante gli abiti sgargianti, a Franz sembrarono persone molto più serie e rispettabili dell’individuo nascosto sulla vetta. Si chiese che cosa sarebbe successo, una volta che si fossero incontrati sulla cima. Il sacerdote dalla lunga veste avrebbe cercato di convertirli? O li avrebbe scacciati ritualmente? Oppure li avrebbe fermati, come il Vecchio Marinaio, e avrebbe raccontato loro una storia bizzarra con una morale? Franz tornò a guardare verso la cima, ma il tizio (o la tizia, forse) era sparito. Un timido, evidentemente. Scrutò fra le rocce, cercando di scoprirlo in un nascondiglio, e seguì gli escursionisti finché non arrivano in cima e non sparirono poi dall’altra parte. Sperava di assistere a un incontro a sorpresa, ma non vide niente.