Выбрать главу

Per qualche istante rimase totalmente assorto in quel lavoro.

Ecco laggiù la fenditura! Ed ecco la sua finestra, la seconda dall’alto, molto piccola ma nitida nella luce del sole. Una vera fortuna, riconoscerla proprio in quel momento, perché le ombre, spostandosi sul muro, entro breve tempo l’avrebbero nascosta.

E poi, all’improvviso, le mani gli tremarono, a tal punto che gli sfuggì il binocolo. Solo la cinghia gli impedì di cadere sulle rocce.

Una figura bruna, pallida, si sporgeva dalla sua finestra e agitava il braccio per salutarlo.

Gli vennero in mente due versi di una vecchia filastrocca popolare, quella che comincia:

Taffy era un gallese, Taffy era un gran mariolo. Venne a casa mia, rubò la carne dal paiolo.

Ma quelli che gli vennero in mente erano gli ultimi versi:

Andai a casa sua, Taffy non l’ho trovato. Taffy era da me e l’osso del brodo aveva rubato.

Adesso, per l’amor di Dio, non farti prendere dal panico, si disse, riprendendo il binocolo e portandoselo di nuovo agli occhi. E smettila di ansimare così, non hai mica corso.

Gli occorse qualche tempo per trovare di nuovo l’edificio e l’apertura tra i grattacieli (maledetto mare di tetti!) ma, quando riuscì di nuovo a vederli, la figura era ancora alla finestra. Aveva un colore bruno pallido, il colore delle vecchie ossa (via, adesso non diventare morboso!). Potevano essere le tende, si disse poi, agitate da un soffio di vento: ricordava di avere lasciato la finestra aperta. Dove c’erano edifici così alti, le correnti d’aria assumevano forme capricciose. Lui aveva le tende verdi, naturalmente, ma gli orli avevano lo stesso colore indefinito dell’apparizione alla finestra. E la figura, a guardarla adesso, non lo stava affatto salutando (la sua danza era dovuta unicamente al binocolo) ma piuttosto pareva guardarlo pensierosa, come per dirgli: “Sei voluto venire a visitare casa mia, signor Westen, e perciò io ho deciso di approfittare dell’occasione per dare con calma un’occhiatina alla tua”.

Piantala! si disse. L’ultima cosa che ci serve, adesso, è la fantasia di uno scrittore.

Abbassò nuovamente il binocolo per dare al proprio cuore la possibilità di rallentare i battiti e per muovere le dita anchilosate. All’improvviso, sentì una forte collera. Si era lasciato trascinare dalle fantasticherie, e così aveva perso di vista il fatto più evidente, ossia che qualcuno era andato a ficcare il naso nella sua camera!

Ma chi poteva essere stato? Dorotea Luque aveva un passepartout, naturalmente, ma non era mai stata una ficcanaso; e neppure il suo taciturno fratello, Fernando, che stava giù in portineria e non parlava inglese, ma che era un fenomeno quando giocava a scacchi. Franz aveva una seconda chiave e l’aveva data a Gunnar, la settimana prima, per via di un certo pacco di libri che doveva arrivargli mentre era fuori, e non se l’era ancora fatta ridare. Di conseguenza, la chiave poteva essere in mano a Gunnar come a Saul, o anche a Cal, se era solo per questo. E Cal aveva un vecchio accappatoio sbiadito che era proprio di quel colore, e continuava a metterlo, di tanto intanto…

Macché, era assurdo pensare che uno di loro… Però, che cosa aveva detto Saul, quella mattina, quando lui si era fermato sulle scale? La “fregona” che dava tante preoccupazioni a Dorotea Luque: questo era già più ragionevole. Renditene conto, disse a se stesso: mentre te ne stavi qui a perdere tempo, per venire incontro a oscure curiosità d’ordine estetico, qualche ladro, probabilmente pieno di eroina, è entrato chissà come nel tuo appartamento e ti sta portando via tutto.

Sollevò nuovamente il binocolo, con ira, e trovò subito la sua finestra, ma ormai era troppo tardi. Mentre lui aveva cercato di calmarsi i nervi e aveva continuato a seguire ipotesi assurde, il sole si era spostato e la fenditura si era riempita d’ombra; e lui non riusciva a distinguere la finestra, tanto meno la figura dentro la stanza.

Tutta la collera svanì. Capì che era stata soprattutto una reazione alla sorpresa di quel che aveva visto, o creduto di vedere… no, qualcosa l’aveva visto davvero, ma di che cosa si trattasse, esattamente, nessuno poteva esserne sicuro.

Si alzò dal sedile naturale di pietra, un po’ a fatica, perché aveva le gambe anchilosate e la schiena rigida, dopo essere rimasto immobile così a lungo, e fece cautamente qualche passo, per poi essere di nuovo investito dal vento. Era leggermente depresso: cosa per niente strana, perché da ovest cominciavano ad arrivare le prime volute di nebbia, che si avvolgevano attorno alla torre della TV e la nascondevano in parte; c’erano ombre dappertutto. Ai suoi occhi, Corona Heights aveva perso gran parte della magìa, e adesso lui voleva solo scendere al più presto possibile e correre a controllare la sua stanza. Perciò, dopo avere dato un’occhiata alla cartina, s’incamminò lungo la discesa sotto di lui, come aveva visto fare ai due escursionisti. Davvero, non vedeva l’ora di essere di nuovo a casa.

7

Il versante di Corona Heights rivolto verso il parco Buena Vista, quello che dava le spalle al centro della città, aveva una pendenza superiore a quel che non sembrasse. Alcune volte, Franz dovette frenare l’impulso di affrettare il passo, e imporsi di procedere cautamente. Poi, a metà della discesa, due grossi cani cominciarono a girargli intorno ringhiando; non sanbernardo, ma grandi dobermann neri, di quelli che gli facevano venire in mente le SS. E il loro padrone, che si trovava più in basso, impiegò parecchio tempo prima di decidersi a richiamarli. Franz attraversò quasi di corsa il prato verde ai piedi della collina e il cancello nell’alta rete di recinzione.

Per qualche momento, pensò di telefonare alla signora Luque o addirittura a Cal, per chiedere loro di dare un’occhiata in camera sua, ma poi esitò all’idea di esporle a un possibile pericolo… o di disturbare Cal che si stava esercitando. Quanto a Gunnar e Saul, dovevano essere fuori.

E poi non sapeva esattamente cosa aspettarsi, e comunque preferiva sbrigarsela da solo.

Presto (ma non troppo presto per lui) si trovò a camminare in fretta lungo il Buena Vista Drive East. Il parco costeggiato da quella strada, un’altra altura, ma coperta di alberi, saliva accanto a lui, verde scuro e pieno d’ombre. Adesso che Franz era di quell’umore, gli sembrava che non fosse affatto una “bella vista” come diceva il suo nome, ma piuttosto l’ambiente ideale per sordidi traffici di eroina e per gli omicidi. Il sole, ormai, era tramontato del tutto, e volute irregolari di nebbia s’incurvavano dietro di Franz. Quando arrivò in Duboce Street avrebbe voluto scendere di corsa, ma lì i marciapiedi erano troppo ripidi, i più ripidi che avesse mai visto sui sette e più colli di San Francisco, e dovette di nuovo mordere il freno e posare con prudenza il piede, e perdere tempo. La zona sembrava tranquilla quanto Beaver Street, ma c’era poca gente in giro, adesso che con la sera era sceso il freddo; e Franz, ancora una volta, mise in tasca il binocolo.

Prese il tram con la scritta N-JUDAH, nel punto dove sboccava dalla galleria sotto il Buena Vista Park (con tutte quelle gallerie, le colline di San Francisco dovevano essere un colabrodo, pensò) e scese per la Market Street fino al Civic Center, la piazza del municipio. Tra la folla che a quella fermata salì con lui su un 19-POLK, una figura massiccia e pallida che stava dietro di lui lo fece sussultare: ma era solo un muratore dagli occhi stanchi, coperto dalla polvere bianchiccia di qualche lavoro di demolizione.

Scese dal 19 a Geary. Nell’androne dell’811 di Geary Street c’era soltanto Fernando che passava l’aspirapolvere, con un suono grigio e cavernoso come adesso lo era la giornata, là fuori. Franz avrebbe voluto fermarsi a chiacchierare, ma il portiere, basso, massiccio e cupo come un idolo peruviano, conosceva l’inglese ancor meno della sorella, e per giunta era piuttosto duro d’orecchio. Si scambiarono un saluto, gravemente, e poi un Senyor Lókey e un Miistar Juestón, perché Fernando pronunciava “Westen” alla spagnola.