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― Ma certo che è cambiata! Adesso si deve dire:

Pesce, pesciolino,

vieni da Fra’ Martino.

― E chi sarebbe questo Fra’ Martino?

― È mio cognato, che sta nei francescani e non ha tempo di venire a pescare perché deve girare per la questua.

― Adesso gliela do io la questua! ― grida Albertone.

Balza addosso al pescatore fortunato, lo solleva sopra il parapetto e lo scaglia nel Tevere, invano rimproverato da una maestra in pensione, che ha visto tutto da un finestrino del filobus numero Settantacinque e si affaccia ad esclamare, piena d’indignazione: ― Giovanotto, è questa l’educazione che le hanno insegnato a scuola?

Albertone non la sente. Non la vede nemmeno. Vede soltanto che laggiù, sotto il ponte, centinaia di pesci sollevano il pescatore fortunato e lo portano a riva, stando bene attenti che non si bagni la giacca. Purtroppo un’onda gli infradicia i calzoni, ma subito un pesce glieli asciuga col phon a batteria (nel Tevere non ci sono prese di corrente).

Il signor Giorgio Giuseppino viene su dalla scaletta, tutto sorridente, giusto in tempo per liberare Albertone dalla stretta di due guardie di Pubblica Sicurezza che lo stavano arrestando per lancio di pescatori dal ponte.

― Non è niente, ― spiega il signor Giorgio Giuseppino. ― È stato tutto uno scherzo con una piccola sfumatura di equivoco. Giochi da ragazzi, capiscono?

― Ma quest’uomo vi voleva affogare vivo!

― Macché affogare, via, non esageriamo! Garantisco per il signor Albertone e apro una sottoscrizione per comprargli una canna da pesca nuova, perché l’altra gli è caduta nel fiume.

Questo è vero. Albertone, per la rabbia, ha buttato la canna ai pesci, che ci stanno giocando al giavellotto.

Insomma, tutto si accomoda. Le guardie vanno al cinema, i passanti si disperdono in varie direzioni, la circolazione riprende il suo fatale andare e, mentre Albertone se ne sta lì ingrugnato e silenzioso a guardarsi i bottoni del panciotto, il signor Giorgio Giuseppino ricomincia a pescare.

Pesce, pesciolino,

vieni da Fra’ Martino.

E su pesci. Ormai vengono anche da Fiumicino per abboccare. Vengono dal mare, di corsa, cefali e triglie, sogliole e dentici, orate e spigole, ombrine, scorfani, tonni, sgombri, scambiandosi robusti colpi di testa e di coda per essere i primi a farsi prendere.

Per tirar su una verdesca, il signor Giorgio Giuseppino deve farsi aiutare da due tranvieri del Sessanta e da due baristi di piazza Sennino. Però, quando sbuca da dietro l’Isola Tiberina, lanciando festosi zampilli, un balenottero che sembra il cugino di Moby Dick, il signor Giorgio Giuseppino fa segno di no col dito e si rifiuta di pescarlo, dichiarando: ― Niente mammiferi! Solo pesci!

Albertone osserva e tace. È impazzito, ma non lo dice a nessuno, se no lo mettono al manicomio. Lo si può sempre vedere, su un ponte o sull’altro, di giorno o di notte, mentre spia pazzamente le acque del Tevere. Chi gli passa vicino lo sente borbottare:

Pesce, pesciolino,

vieni da Robertino...

Pesce, pesciolino,

vieni da Gennarino... vieni da Ernestino... da Goffredino... da Giocondino... da Caterino... da Teresino…da Avellino... dalla battaglia di Borodino…

Egli cerca la parola d’ordine alla quale dovranno finalmente obbedire i pesci, animali evasivi quant’altri mai. Non sente il sole d’estate. D’inverno non avverte la tramontana, quando scende dalla Val Tiberina a spazzare i ponti, e anche i cavedani, nelle acque gelide, vorrebbero avere indosso un cappotto di pelliccia e in testa un colbacco di astrakan. Egli cerca disperatamente la parolina giusta. Ma non sempre chi cerca trova.

Mister Kappa e I Promessi Sposi

Ore dieci, lezione di lettere. Con il vecchio professor Ferretti le cose stavano in modo e maniera che gli studenti potevano effettivamente usare quei preziosi cinquanta minuti per scambiarsi da un banco all’altro, da una fila all’altra ed anche da un sesso all’altro, lettere di varia lunghezza sui più affascinanti argomenti, quali: il cinema tedesco tra le due guerre, il gioco del calcio, lo sviluppo motoristico delle isole giapponesi, l’amore, il denaro (dare e avere, per pizza o maritozzo), il commercio dei fumetti, la concia dei tabacchi, eccetera. Ma le cose non stanno più in quel modo né in quella maniera da quando sulla cattedra siede il professor Ferrini. Con lui lettere vuol dire letteratura, letteratura vuol dire Promessi Sposi: è l’ora fatidica dei riassunti.

Il professor Ferrini, armato di gatto a nove code, si aggira per l’aula e ispeziona i quaderni, onde accertarsi che contengano tutti il riassunto del capitolo dodicesimo dell’immortale romanzo e che detti riassunti non risultino copiati l’uno dall’altro come le immagini negli specchi.

Trema lo studente De Paolis, che ha riassunto solo il primo periodo e l’ultimo, riempiendo lo spazio intermedio con un brano di prosa giornalistica copiato in fretta dall’articolo di fondo del Paese Sera. Sicché il suo testo, a un’attenta lettura, suonerebbe: “In questo capitolo l’Autore ricorda che il raccolto del grano, nel 1628, riuscì ancor più misero che nell’anno precedente. Ma soltanto una battaglia che in qualche modo rimetta in discussione, nel paese prima ancora che a livello politico, gli attuali equilibri sociali può riaprire ai socialisti la strada del governo in condizioni tali, ecc. ecc.”

Per fortuna il professor Ferrini è rassicurato dalla vista della parola Autore e della sua legittima maiuscola iniziale e passa oltre. Ma eccolo lanciare un urlo: egli ha scoperto che lo studente De Paolis, per risparmiare carta e penna, ha falsificato il titolo del riassunto precedente, correggendo “Capitolo Undicesimo” in “Capitolo Dodicesimo”. Il malcapitato riceve seduta stante sette colpi di frusta sui pantaloni. Senza un lamento, sia a suo onore.

Subito dopo il volto severo del professor Ferrini assume l’espressione del più alto compiacimento.

― Ancora una volta, ― egli proclama, agitando un quaderno della serie di Diabolik, ― il mio più alto elogio vada alla studentessa De Paolottis, per il suo impeccabile riassunto, come sempre completo ed elegante, acuto nell’analisi e sicuro nella sintesi, esemplare quanto alla punteggiatura. E lor signori sanno quanto il Manzoni tenesse alla buona punteggiatura.

La studentessa De Paolottis abbassa modestamente gli occhi sotto gli occhiali e si tocca una treccia in segno di graziosa confusione. Ragazzi e ragazze si congratulano con lei, mandandole mazzi di fiori e scatole di cioccolatini con il portachiavi incorporato. Sul portachiavi spicca il segno zodiacale della fanciulla, che per l’appunto è la Vergine. Delicato pensiero.

Quando però il professor Ferrini fa ritorno alla sua cattedra, lo si vede a un tratto sbarrare gli occhi per l’orrore e impallidire per il ribrezzo, come se avesse toccato una scolopendra. Con gesto nervoso egli accartoccia un foglietto e se lo ficca in tasca. Poi, accusando un attacco di polinevrite, abbandona l’aula e l’istituto, corre a prendere un taxi e si fa portare da Mister Kappa, il più celebre e meglio pagato investigatore privato del Lazio.

Mister Kappa non gli da nemmeno il tempo di parlare: ― Aspetti, ― egli raccomanda perentoriamente. ― Si sieda lì. Cappello marrone, cravatta nera... Professore di ginnasio, vero? No, no, non risponda. Gli interrogativi riguardano me solo. Insegnante di lettere, direi, a giudicare dalle sue scarpe a punta rotonda. Qualcosa che riguarda I Promessi Sposi, vero?

― Come l’ha indovinato?