Выбрать главу

― C’è odor di polvere, ― dicono i contadini, rabbrividendo nei loro letti. ― Piano Bill sta di nuovo provando L’arte della fuga. Ottimo, peraltro, il tocco.

A mezzogiorno meno cinque tutti i tolfetani si ritirano nelle loro case, sbarrano porte e finestre e buttano giù la pasta. A mezzogiorno meno tre lo Sceriffo compare a un’estremità della piazza, con una pistola per mano, altre due infilate nella cintura e una quinta nascosta sotto il cappello. A mezzogiorno meno uno, all’altra estremità della stessa piazza (guarda che combinazione!) compaiono l’Oriolese, il suo pianoforte, Vincenzino che tiene per mano Vincenzina. Vincenzina che tiene per mano il transistor. Piano Bill smonta da cavallo, scarica il Pianoforte e lo spinge davanti a sé sulle rotelle.

― Non vale! ― grida lo Sceriffo. ― Nelle sfide infernali non sono ammessi gli scudi !

― Ti faccio osservare, ― replica Piano Bill, ― che io non porto armi, perché sono contrario al fumo degli spari. Intendo affrontarti col mio pianoforte, da uomo a uomo.

Lo Sceriffo sghignazza, solleva una pistola, sta per premere il grilletto... Ma proprio in quel momento dal pianoforte esce un tema di tale forza che l’indegno rappresentante della legge sente una fitta alla milza, un’altra al piloro, una terza al pomo d’Adamo. Egli si porta le mani al collo, stramazza al suolo, si rotola nella polvere. I tolfetani aprono le finestre in tempo per sentirlo singhiozzare: ― Basta! Basta! Confesso! Bach è grande, l’Oriolese è innocente, Vincenzina può sposare il suo primo amore che non si scorda mai!

Questo è quanto voleva sentirgli dire Piano Bill. Il resto s’immagina. I due giovinetti convolano a giuste nozze e vogliono essere accompagnati da Piano Bill.

― Suonerai per noi l’Ave Maria di Schubert, ― dice Vincenzina.

Una smorfia di dolore si disegna sul volto del cowboy, tormentato dalle intemperie:

― Non posso, ― egli mormora, ― di Schubert, se proprio volete, vi suono la parte del pianoforte nel Quintetto della Trota...

Ma Vincenzina vuole assolutamente l’Ave Maria, perché prima di lei l’hanno avuta la figlia del sindaco, la figlia della maestra, sua sorella Carletta e sua cugina Rossana.

― Mi dispiace, ― mormora con un fil di voce l’onesto cowboy. ― È più forte di me. Scusatemi, amici...

Piano Bill sprona il cavallo e si allontana al galoppo, per tornare alla sua solitudine... Ebbene va, va, solitario cowboy: che le acque irragionevoli del Mignone ti accompagnino quando suoni Mozart sul tuo fedele pianoforte, e perfino le nuvole attraversano il cielo in punta di piedi per non perdere nemmeno una biscroma di quella musica divina.

I misteri di Venezia

ovvero

Perché ai piccioni non piace l’aranciata

Il dottor Martinis, giovane esperto pubblicitario di belle speranze, va a Venezia con un carico di mangime per piccioni, travestito da mattonelle per pavimenti, e un incarico segreto della sua ditta, produttrice dell’aranciata Frinz. Egli pensa, giustamente: “Prima che Venezia venga inghiottita e digerita dalla Laguna, utilizziamola se non altro per fare la réclame a un prodotto tanto utile, particolarmente raccomandato ai fanciulli, alle persone anziane e agli arcivescovi”.

Il dottor Martinis, una certa mattina, farà spargere il mangime in piazza San Marco, ma non a vanvera né alla rinfusa, bensì secondo un disegno prestabilito: quando i piccioni, attratti da quella ghiottoneria, si poseranno sulla piazza, essi formeranno una scritta della lunghezza di metri ottantaquattro, che dirà: «BEVETE FRINZ!» Tale scritta verrà fotografata dal dottor Martinis, che la sorvolerà personalmente in elicottero. La fotografia verrà pubblicata sui giornali di tutto il mondo e la gente dirà, in molte lingue: ― Ah, finalmente si fa qualcosa per Venezia!

Tutto procede a meraviglia e senza scirocco. Il dottor Martinis assume in segreto numerosi portatori di mangime, facendo giurare loro sul tappo di una bottiglietta d’aranciata che manterranno il silenzio fino alla tomba e oltre: ― Ricordate, ― egli dice, ― non una parola con vostra moglie, non una sillaba con il baccalà alla vicentina, non un sospiro col Ponte dei Sospiri.

La mattina fissata i portatori spargono il mangime sul pavimento della piazza, il dottor Martinis si leva in volo con il suo elicottero personale, i piccioni calano dal campanile, dalle cupole, dai tetti, da tutte le alture circostanti, si tuffano in picchiata e... E niente. Essi rivolano in fretta, borbottando sentenze incomprensibili, alle loro elevate residenze.

― Ma che fate? ― grida il dottor Martinis. ― Che scherzi sono questi, o inconcludenti volatili? Quello è mangime di ottima qualità, la ditta Frinz vi vuol bene, io stesso sono stato decorato dalla Protezione Animali perché ho salvato un piccione che stava per essere divorato da un soriano!

I piccioni non lo sentono neanche. Se lo sentono, non capiscono. Se capiscono, fanno i finti tonti.

Il dottor Martinis atterra con l’elicottero in mezzo alla piazza, provocando lo svenimento di due anziane signorine di Amburgo. Si precipita a raccogliere una manciata di mangime, ci tuffa il naso, l’assaggia con la punta della lingua e immediatamente se ne libera, sputazzando a est e a ovest.

― Tradimento! ― egli esclama. ― Il mangime puzza fortemente di Felibilina, l’ingegnosa sostanza studiata apposta per tener lontani i piccioni, in quanto procura loro incubi spaventosi, durante i quali si sentono circondati da migliaia di gatti affamati. Ma chi può aver avvelenato il mio mangime con detta sostanza?

Il dottor Martinis raduna i portatori di mangime e fa l’appello. Ne manca uno, chiamato Bepi di Castello.

― Ecco il traditore, ― conclude Martinis, giudiziosamente.

Ciò, ― protestano i portatori, ― Bepi un traditor? Ma non è vero: sono venuti a chiamarlo perché sua nonna ha il morbillo.

― È già la terza nonna che gli si ammala, poareto!

― Come, la terza?!? ― domanda Martinis interdetto.

― Noialtri non sappiamo, ― dicono i portatori, ― però sappiamo che Bepi di Castello lo chiamano anche Bepi delle Tre Nonne.

Il dottor Martinis nutre un lieve sospetto che i portatori gli stiano dando da bere acqua per Tocai, ma non ribatte. Mentre si volta per andarsene, nota tra la folla un tizio che sogghigna satanicamente... Ma non è un Tizio qualsiasi! È il dottor Martonis, giovane esperto pubblicitario di belle speranze, che si trova a Venezia in incognito per realizzare un fantastico progetto: far scrivere ai piccioni sul pavimento di piazza San Marco, attirandoli con ghiotti e abbondanti mangimi:

«NON CHIEDETE UN’ARANCIATA, CHIEDETE FRONZ! SI BEVE A QUALUNQUE ORA, A QUALSIVOGLIA ALTITUDINE SUL LIVELLO DEL MARE, DA SOLI O IN COMPAGNIA, MILITARI METÀ PREZZO».

Egli calcola che per formare la scritta occorreranno cento quintali di mangime e trentanovemilaottocentoventi piccioni.

― Sei tu, Martinis? ― dice Martonis, fingendo sorpresa, gentilezza e simpatia.

― Sei tu, Martonis? ― ripete Martinis, con le stesse armi. I due rivali si stanno di fronte col sorriso sulle labbra e il bazooka sotto l’impermeabile.

― Mi trovo a Venezia, ― spiega Martonis, ― per ammirare i capolavori del Tintoretto nella Scuola di San Rocco.

Martinis non gli crede, ma si lascia offrire ugualmente l’aperitivo. Poi corre a ordinare dell’altro mangime per i piccioni. La mattina seguente va a ispezionare piazza San Marco e che cosa vede? Gli uomini di Martonis la stanno decorando con il loro mangime! Martinis sta per essere colto da un attacco di tonsillite, ma guarisce subito perché i piccioni si comportano con l’aranciata Fronz allo stesso modo che con l’aranciata Frinz: si tuffano, annusano appena e risalgono in disordine le azzurre valli dell’aria che avevano discese con tanto appetito.