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«E tu pensi che tutti ti amino, che ti augurino ogni bene, non è vero? Pensi che tutte quelle belve, sì, dico, la gente di Hempnell, siano soltanto un gruppo di gattini dagli artigli rientrati? Sorvoli sulla loro invidia, sulle gelosie, che ritieni trascurabili, troppo in basso perché tu li noti… Ma lascia che ti dica…»

«Tansy, non gridare!»

«…Che molta gente a Hempnell vorrebbe vederti morto, avrebbe voluto vederti morto da un pezzo, se fosse stato in suo potere.»

«Tansy!»

«Quali sentimenti credi che nutra per te Evelyn Sawtelle, nel vedere che stai per superare suo marito nella corsa alla cattedra di sociologia? Cosa credi, che ti voglia rimpinzare di dolci per questo? Magari una delle sue torte al cioccolato con le ciliegine? Pensi che Hulda Gunnison sia soddisfatta dell’influenza che hai acquistato su suo marito? È colpa tua, se lei non spadroneggia più nell’ufficio del preside. In quanto a quella cagna libidinosa della signora Carr, credi che le piaccia quella tua politica di libertà e franchezza che hai adottato con gli studenti, politica che fa a pugni con la sua sacrosanta rispettabilità del tipo il sesso è soltanto una brutta parola e tutto il resto? Cosa credi che quelle donne abbiano sempre fatto per i loro mariti?»

«Oh Dio! Tansy, perché tirare in ballo queste vecchie rivalità universitarie?»

«E tu credi che quelle si fermino alle sole pratiche di protezione? Immagini che donne come quelle possano distinguere fra magia bianca e magia nera?»

«Tansy, non sai ciò che dici. Se vuoi alludere… Tansy, quando parli a quel modo, mi sembri veramente una strega.»

«Ah, davvero?» Per un attimo ebbe un’espressione così tesa che il suo viso pareva solo un teschio.

«E forse lo sono. Ed è forse una fortuna per te che lo sia stata.»

L’afferrò per un braccio. «Ascoltami, sono stato paziente con te riguardo a tutta questa balordaggine da ignoranti; ma ora mi fai il piacere di usare il buon senso, e di usarlo subito.»

Le labbra di Tansy si arricciarono. «Capisco. Finora hai usato il guanto di velluto, ed ora sfoggerai la mano di ferro. E se non ti ubbidisco, mi spedisci al manicomio. È così?»

«No, cara. Ma tu devi mettere giudizio.»

«Ebbene, io mi rifiuto.»

«Ascolta, Tansy…»

10.13 p.m. La trapunta ripiegata sobbalzò quando Tansy si gettò sul letto. Altre lacrime avevano rigato e arrossato il suo volto, poi si erano asciugate. «D’accordo» disse con voce imbronciata. «Farò come vuoi tu. Brucerò tutte le mie cose.»

Norman si sentì sollevato. Pensò improvvisamente: “E dire che ho avuto il coraggio di fare tutto questo senza l’aiuto di uno psichiatra”.

«Più di una volta mi è venuta voglia di smettere» aggiunse dopo un po’. «E più di una volta ho desiderato smettere di essere una donna.»

Le ore che seguirono furono per Norman qualcosa di totalmente diverso dall’eccitazione precedente. Prima di tutto si trattò di rovistare lo spogliatoio di Tansy per scovare talismani nascosti e altre cianfrusaglie. A Norman vennero in mente le vecchie commedie del cinema muto, nelle quali si vedevano decine e decine di persone uscire tutte da un solo taxi. Pareva impossibile che pochi cassetti e qualche vecchia scatola da scarpe potessero riempire tanti cestini della carta straccia. Sull’ultimo di questi egli gettò la sua vecchia copia di Parallelismi e prese in mano il diario di Tansy, un libriccino rilegato in pelle. Lei scosse la testa con gesto rassicurante. Dopo una leggera esitazione, Norman lo ripose senza aprirlo.

Poi venne il resto della casa. Tansy correva sempre più svelta, di stanza in stanza, per recuperare manine di flanella dall’imbottitura delle sedie, da sotto i piani dei tavoli, nell’interno dei vasi, finché Norman si meravigliò di aver vissuto in quella casa per più di dieci anni senza mai imbattersi in uno di questi amuleti.

«Sembra quasi una caccia al tesoro, non ti pare?» disse lei con un sorriso malinconico.

C’erano amuleti anche fuori, sotto i gradini dell’ingresso, e alla porta di servizio, nel garage, nella macchina. A ogni manciata di rifiuti che gettavano nel fuoco crepitante acceso nel caminetto del soggiorno, Norman provava un sollievo sempre maggiore. Finalmente Tansy scucì i guanciali del suo letto, e ripescò due piccole figurine fatte di penne intrecciate, legate con filo sottile, che si erano amalgamate con la piuma contenuta nel guanciale.

«Vedi, una delle due è un cuore, l’altra è un’ancora. Assicurano protezione. È la magia delle piume, quella di New Orleans. Non hai fatto un solo passo, questi anni, senza trovarti nel raggio d’azione di uno dei miei amuleti»

Le figurine di penna divamparono nelle fiamme.

«Ecco fatto» gli disse. «Non senti niente? Nessuna reazione?»

«No» disse lui. «Perché? Avrei dovuto…»

Tansy scosse il capo. «È solo perché questi due erano gli ultimi. E così, se ci fossero in giro forze ostili che i miei talismani tenevano a rispettosa distanza…

Norman rise con indulgenza. Subito dopo la sua voce tornò a farsi dura. «Sei proprio sicura di averli distrutti tutti? Di non averne dimenticato qualcuno in giro?»

«Assolutamente certa. In casa, o vicino a casa, non ce n’è rimasto uno solo, Norm, e non ne ho mai piantati in altri posti perché temevo… insomma, temevo le interferenze. Li ho contati tutti, nella mia mente, decine di volte, e ora sono tutti andati…» guardò il fuoco «puff! Ora» disse quietamente «mi sento stanca, veramente stanca. Voglio andare subito a letto.»

Di colpo scoppiò a ridere. «Ma prima, devo ricucire quei guanciali; se no, troveremo delle piume dappertutto.»

Le mise il braccio intorno al collo. «Va bene, ora?»

«Sì, tesoro» gli rispose. «Una sola cosa ancora vorrei chiederti. Di non parlarne per un po’ di giorni, almeno. Neanche un’allusione. Sento che non potrei… Me lo prometti?»

La strinse a sé. «Assolutamente, cara. Stanne certa.»

3

Seduto sull’orlo della vecchia sedia di cuoio, chino sul caminetto, Norman giocherellava con i resti del fuoco, picchiando con la punta dell’attizzatoio su un tizzone incandescente finché questo si ruppe con un tintinnio dividendosi in molte piccole braci dalle quali si alzarono fiamme azzurre, quasi invisibili.

Vicino a lui, sul pavimento, Totem osservava le fiamme, con la testina piegata fra le zampe.

Norman si sentì stanco. Avrebbe dovuto seguire Tansy a letto da un pezzo, ma gli occorreva del tempo per sbrogliare i suoi pensieri. Una bella mania, questa sua necessità professionale di assimilare ogni situazione nuova, sottolinearne mentalmente ogni aspetto, sviscerarlo in questa o in quella maniera finché non fosse tutto consumato. All’opposto, Tansy aveva girato l’interruttore sui suoi pensieri ed era sprofondata nel sonno. Era proprio il suo modo di fare. O era forse l’effetto della fisiologia femminile, più armoniosa, più ipertiroidea?

Lei comunque aveva agito nel modo più pratico, più ragionevole. E anche questa era una sua caratteristica. Sempre leale, sempre disposta alla fine a dar retta alla logica (nelle stesse circostanze avrebbe osato lui, Norman, tenere un discorso ragionevole a una donna diversa da Tansy?), e sempre… come dire… ah, sì, empirica. Salvo a imboccare quella strana via…

Era tutta colpa di Hempnell. Quel collegio era proprio un focolaio di nevrosi e la moglie di un professore vi si trovava esposta più di chiunque. Avrebbe dovuto rendersi conto, in tutti quegli anni, dello sforzo al quale Tansy era sottoposta, e porvi rimedio. In quello, era stata un’attrice consumata. Norman dimenticava sempre con quanta serietà le donne considerassero il minimo intrigo universitario. Non potevano evadere, come i loro mariti, nel mondo misurato, freddo della matematica, della microbiologia e delle altre materie.