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Norman sorrise. L’allusione che Tansy aveva lasciato cadere alla fine della discussione era piuttosto sconcertante. Cioè, che Evelyn Sawtelle, e la moglie del vecchio Harold Gunnison, come pure la vecchia signora Carr praticassero anch’esse la magia, ma quella nera, malefica, mortale. Ci voleva poco a crederlo, conoscendole. Era uno spunto che uno scrittore satirico avrebbe potuto sfruttare con successo. Bastava alzare di un tono il racconto, descrivere la maggior parte delle donne come tante streghe, sicure del loro fascino, intente a farsi una guerra spietata, a base di incantesimi mortali e di talismani, mentre i loro mariti, con gli occhi fissi sulla realtà, si immergevano incoscientemente nel loro lavoro. Vediamo un po’, Barrie aveva scritto un libro del genere, dal titolo Ciò che ogni donna sa, per dimostrare che gli uomini non si rendono mai conto del ruolo preminente svolto dalle loro mogli in ogni loro successo. Essendo ciechi a quel punto è evidente che potevano ancor meno sospettare che le mogli usassero la magia per conseguire lo scopo.

Il sorriso di Norman si mutò in smorfia. Ricordava che non si trattava di un’allusione distratta, ma che Tansy aveva davvero creduto, perlomeno in parte, a quelle affermazioni. Si inumidì le labbra, irritato. Indubbiamente, ore spiacevoli come queste ve ne sarebbero state ancora. Di tanto in tanto, un ricordo l’avrebbe fatto trasalire. Dopo tutto quello che era successo quella notte, era inevitabile.

Il peggio però era passato.

Si chinò ad accarezzare Totem che non voltò il capo, intenta com’era a guardare la brace nel camino.

«È ora di andare a letto, gattona. Dev’essere quasi mezzanotte. No… l’una e un quarto!»

Mentre riponeva l’orologio nel taschino, le sue dita sfiorarono il medaglione appeso all’altra estremità della catena.

Soppesò nel palmo della mano il cuoricino d’oro, regalo di Tansy. Era o no un po’ più pesante del normale?

Aprì il medaglione con l’unghia del pollice. Ma non v’era modo, perlomeno un modo visibile di arrivare nello spazio sottostante la fotografia. Dopo un attimo di riflessione sfilò accuratamente la piccola fotografia con la punta di una matita.

Dietro la fotografia c’era un minuscolo involto racchiuso in una flanella sottilissima.

Era proprio il modo di comportarsi delle donne, pensò con maligna rapidità. Fanno finta di arrendersi completamente e invece ti nascondono ancora qualcosa.

Ma forse lo aveva dimenticato.

Con rabbia gettò l’involtino nel fuoco. La fotografia danzò sulle fiamme, ricadde sul letto di brace e divampò prima che fosse possibile recuperarla. In un baleno vide il volto di Tansy arricciarsi e carbonizzarsi.

Per l’involtino ci volle più tempo. Una vampata gialla tagliò la superficie mentre la flanella crepitava. Poi si levò una fiammata alta.

In quell’attimo Norman fu percorso da un brivido, sebbene sentisse tuttora il caldo riverbero della brace. La camera gli parve oscurarsi, nelle sue orecchie avvertì una specie di rombo, come un rumore di motori, molto lontani, sotterranei. Gli parve di trovarsi di colpo nudo e disarmato di fronte a qualcosa di minacciosamente estraneo.

Totem si era voltata e osservava intensamente le ombre dell’angolo più buio. Emise un sibilo, e con un balzo di fianco fuggì dalla stanza.

Norman si accorse di tremare. Reazione nervosa, pensò. Avrebbe potuto coglierlo anche prima.

Il fuoco nel camino morì lentamente, e poi non rimase altro rumore che lo scoppiettio della brace.

Improvviso come un’esplosione squillò il telefono.

«Professor Saylor? Lei non si aspettava di sentire la mia voce, non è vero? Il motivo per cui l’ho chiamata è che ho sempre ritenuto opportuno far sapere a tutti, non importa a chi, la mia situazione. Ed è molto più di quanto si possa dire di molta gente.»

Norman allontanò il ricevitore dall’orecchio. Dal senso delle parole, sebbene confuse, pareva si trattasse dell’inizio di un discorso. Ma il tono con il quale erano pronunciate lo smentiva. Ci voleva almeno mezz’ora di esaltata declamazione per raggiungere quel tono così lamentosamente acuto, quella intonazione (ma sì, era la parola giusta) di pazzia furiosa.

«Ciò che le voglio dire, Saylor, è questo. Non sono disposto ad accettare supinamente ciò che mi è stato fatto, non mi lascerò buttar fuori da Hempnell. Mi appellerò per far cambiare i voti. E lei sa perché.»

Norman riconobbe la voce. In un baleno gli apparve l’immagine di un viso molto stretto, molto pallido, labbra e occhi sporgenti, sormontato da una folta zazzera rossa. Interruppe l’interlocutore.

«Senti, Jennings, se eri certo di essere stato trattato ingiustamente, perché non hai presentato le tue lagnanze due mesi fa, al momento della classifica?»

«Perché? Ma perché lei mi aveva messo delle fette di salame sugli occhi. Il caro professor Saylor, di così larghe vedute! Solo più tardi mi sono reso conto che lei non si era occupato di me come avrebbe dovuto, che mi aveva disprezzato e ignorato alle conferenze e nei colloqui con gli studenti, Lei si è ben guardato dal dirmi che potevo essere bocciato finché non è stato troppo tardi. E le sue domande, i suoi test pieni di tranelli… Riguardavano sempre le lezioni che io avevo saltato. E l’antipatia che lei non riusciva a nascondere per la politica di mio padre, e perché non ero quel tipo di studente brillante come Bronstein. Soltanto allora io…»

«Jennings, sii ragionevole. Hai trascurato due corsi, oltre il mio, nell’ultimo trimestre.»

«Sì, ma perché lei aveva sparso la voce in giro, influenzato gli altri contro di me, dipingendomi come lei mi vedeva. Ha fatto in modo che ognuno…»

«E pretendi di accorgertene solo adesso?»

«Certamente, La cosa mi è apparsa in un baleno, mentre ero qui a pensare. Lei è stato furbo. Io la seguivo come un cagnolino, lei faceva di me quel che voleva, tanta era la soggezione che io provavo per lei. Ma appena mi è venuto il primo sospetto, ho visto chiaramente il suo piano. Tutto si concatenava, tutto faceva capo a lei.»

«Anche il fatto che ti abbiano buttato fuori da due collegi universitari prima di approdare a Hempnell?»

«Sapevo che lei era prevenuto contro di me sin dall’inizio.»

«Jennings» disse Norman con fare stanco «io ti ho ascoltato fin che ho potuto. Se hai delle lagnanze da esporre, esponile al decano Gunnison.»

«Vuol dire che lei non farà nulla?»

«Proprio così.»

«È la sua ultima parola?»

«È la mia ultima parola.»

«Benissimo, Saylor. Tutto ciò che posso dirle è questo: stia in guardia, stia in guardia, Saylor, stia in guardia!»

Si udì lo scatto in chiusura dell’apparecchio all’altro capo del filo. Norman pose il ricevitore con garbo sulla forcella.

Maledizione ai genitori di Theodore Jennings: non perché fossero dei vanitosi ipercritici, dei reazionari dal cervello imbottito, ma perché avevano quella crudele ambizione di voler spingere negli studi universitari un ragazzo emotivo, egoista, verboso, forse un po’ subnormale, dalla mente ristretta: tale quale quella dei suoi genitori, sebbene molto meno furbo. Maledizione anche al preside Pollard così supino alla loro influenza politica, alla loro ricchezza, da lasciare il ragazzo entrare a Hempnell pur sapendo che non avrebbe mai potuto superare gli esami di laurea.

Norman pose il parafuoco di fronte al camino, spense le luci del soggiorno e s’incamminò verso la stanza da letto nel chiarore giallo che proveniva dalla luce dell’ingresso.

Il telefono trillò nuovamente. Norman lo contemplò con curiosità prima di alzare il ricevitore.

«Pronto?»

Non vi fu risposta. Aspettò un attimo e ripeté: «Pronto? Pronto?»

Nessuna risposta. Stava per riattaccare quando gli parve di udire una specie di sospiro agitato, irregolare, come soffocato.