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«Chi parla?» disse vivamente «Qui parla il professor Saylor… parlate, vi prego…»

Udì ancora quel respiro e nient’altro.

Allora dal piccolo, nero, misterioso telefono uscì una sola parola, pronunciata lentamente, con difficoltà, da una voce profonda eppure strozzata, come in un momento di inimmaginabile intimità.

«Tesoro…»

Norman inghiottì la saliva. Non gli riusciva di riconoscere quella voce. Prima ancora di poter pensare a formulare una risposta, la voce aveva ripreso, più rapidamente ma senza cambiar tono.

«Oh, Norman, come sono felice di aver finalmente trovato il coraggio di parlarti, anche se tu non ci sei arrivato. Io sono qui, pronta ad accoglierti. Caro, sono pronta. Vieni da me.»

«Ma davvero?» Norman cercava di temporeggiare, sorpreso. Gli sembrò di afferrare qualcosa di noto in quella voce, non nel tono, ma nel fraseggio e nel ritmo.

«Vieni da me, amor mio, vieni. Portami in qualche luogo segreto dove saremo soltanto noi due, noi due soli. Sarò la tua amante, la tua schiava, la tua cosa. Farai di me ciò che vorrai.»

Norman sentì l’improvviso impulso di scoppiare a ridere, ma il suo cuore era turbato. Se fosse stata reale, sarebbe forse stata una cosa carina; ma in tutta questa faccenda c’era qualcosa di comico. Che si trattasse di uno scherzo?

«Sono qui, sdraiata, mentre ti parlo, e sono nuda, tesoro. Vicino al letto c’è solo una lampadina dal paralume rosa. Oh, caro; portami via, in qualche isola tropicale e ci ameremo di un amore pazzo, un amore da farti male, da farmi male, e poi faremo il bagno al chiaro di luna, e dei petali di fiori cadranno in mare tutt’intorno a noi…»

Sì, era uno scherzo, Non poteva non esserlo, si disse quasi con divertito rimpianto. Di colpo gli venne in mente la sola persona in grado di sostenere uno scherzo del genere,

«Vieni, Norman, vieni da me, portami nell’oscurità…» continuava quella voce.

«Benissimo, arrivo» rispose velocemente. «E dopo che ci saremo amati appassionatamente, accenderemo la luce ed io ti dirò: Mona Utell, non ti vergogni di te stessa?»

«Mona?» urlò in tono altissimo la voce. «Mona?»

«Sicuro, Mona!» la rassicurò ridendo. «Sei l’unica attrice che io conosca; o meglio, l’unica donna che a mio vedere possa imitare così perfettamente una sdolcinata esaltazione. E se ti avesse risposto Tansy? Cosa avresti fatto? Una imitazione di Humphrey Bogart? Come te la passi a New York? Come procede il tuo ricevimento? Cosa stai bevendo?»

«Bevendo? Norman? Ma allora non mi hai riconosciuta?»

«Eccome! Sei Mona Utell.» Ma già gli sorgeva un dubbio. Gli scherzi lungamente architettati non erano il forte di Mona. E quella voce strana, con quell’eco di esasperata familiarità diventava sempre più acuta.

«Parli seriamente, non mi hai riconosciuta?»

«No, credo di no» disse alzando un po’ il tono per adeguarlo a quello con cui gli era stata rivolta la domanda.

«No davvero?»

Norman sentì che quelle due parole premevano il grilletto di una esplosione emotiva, ma non si fermò e continuò a dire “no, no” in maniera impaziente. All’altro capo del telefono la voce emise uno strillo acutissimo. Totem, che stava svignandosela, voltò la testa udendo quel rumore.

«Sporcaccione! Lurido sporcaccione. Dopo tutto ciò che mi hai fatto. Dopo che hai deliberatamente eccitato i miei sensi! Dopo che mi hai spogliata con gli occhi centinaia di volte…»

«Prego?»

«Te la do io… sdolcinata esaltazione! Tu sporco maestrino da due soldi. Torna alla tua Mona, torna da quella tua sciocca moglie… e andate tutti e tre all’inferno!»

Ancora una volta Norman si trovò con un ricevitore muto in mano. Lo pose sul sostegno con un sorriso stanco. Ah! La vita austera di un professore di un collegio universitario! Cercò di immaginare quale donna potesse nutrire una segreta passione per lui: ma non approdò a nulla. L’idea che fosse Mona Utell sul momento gli era parsa verosimile. Era di certo capace di chiamarlo sin da New York per fargli uno scherzo. Uno scherzo, ecco ciò che le occorreva per rianimare un ricevimento dopo-teatro.

Ma non era il tipo da concludere uno scherzo in quella maniera. Mona voleva sempre finire in una gran risata e con lei il suo interlocutore. Forse qualcun altro aveva ideato quella burla.

O forse esisteva realmente qualcuno che… Si scrollò nelle spalle! Che asineria! Ora lo avrebbe raccontato a Tansy e lei si sarebbe divertita un mondo. Si diresse verso la camera da letto.

Solo a quel momento ricordò ciò che era successo in precedenza durante quella serata. Le due chiamate telefoniche glielo avevano fatto dimenticare.

Era arrivato alla porta della stanza da letto. Si volse lentamente indietro e guardò il telefono. La casa era molto silenziosa.

Notò che in certo senso quelle due chiamate telefoniche erano arrivate proprio in quel particolare momento e costituivano una sgradevole coincidenza.

Ma uno scienziato doveva considerare con sano disprezzo le coincidenze.

Udì il respiro calmo, regolare di Tansy.

Spense la luce nell’atrio e se ne andò a letto.

4

Mentre Norman, il giorno dopo, si avviava a Hempnell, notò in maniera insolitamente intensa quanto fosse “pseudo” lo stile gotico del collegio. Com’era scarso il pensiero scientifico che si nascondeva sotto quell’architettura troppo ornata, e quanta preoccupazione vi si celava, per gli stipendi troppo bassi, per le spese amministrative troppo alte. E fra gli stessi studenti, scarsa era la passione per gli studi, e molta la passione, punto e basta… anche se si trattava di una passione timida, derivata dalla pubblicità e stimolata dal cinema.

Ma forse i simboli di quell’architettura tetra volevano simboleggiare proprio questo, anche in quei tempi monastici i chiostri ed i contrafforti avevano un loro ruolo funzionale.

I viali ora erano vuoti, tranne poche persone che procedevano frettolosamente. Entro pochi minuti tutto il corpo studentesco sarebbe uscito dalla cappella, una marea di bluse e golfini.

Un camion sgusciò all’angolo della strada nell’attimo in cui Norman stava per attraversare. Egli indietreggiò tornando sul marciapiede, con un moto di disgusto. Nel nostro mondo condizionato dal motore a scoppio tollerava le automobili comuni; ma i camion, chissà perché, gli suggerivano un malsano gigantismo, provocando in lui una ripugnanza irrazionale.

Guardandosi rapidamente intorno prima di riattraversare, vide con la coda dell’occhio una figura che pareva quella di una studentessa. Era fortemente in ritardo per il servizio religioso, oppure l’aveva saltato del tutto. Dopo un attimo si rese conto che quella figura era la signora Carr, e rallentò il passo per attenderla.

L’errore era naturale. A dispetto dei settant’anni certamente compiuti, la preside delle professoresse, una donna dai capelli candidissimi, aveva una figura e un portamento molto giovanili. Il passo era vivace e quasi elastico. Osservandola attentamente si notava però il collo troppo scuro solcato da mille rughe e era chiaro che quel corpo era sottile a causa degli anni e non della giovinezza. I modi giovanili della signora Carr non erano dovuti ad affettazione, o a uno struggente aggrapparsi alla vita sessuale; anche se lo fosse stato, non lo dava ad intendere. Ma questa falsa giovinezza era dovuta a una famelica infatuazione di gioventù, di freschezza, tale da influenzare perfino le cellule e la tensione elettrica del suo corpo.

Addirittura il culto della giovinezza, fra i professori dei nostri collegi universitari, pensò Norman, una forma particolare del grande culto americano della giovinezza, un impulso quasi vampirico a nutrirsi dei sentimenti e dell’entusiasmo giovanili.

L’arrivo della signora Carr interruppe il filo dei suoi pensieri.

«E come sta Tansy?» chiese lei con una sollecitudine così affabile che per un attimo Norman si chiese se la preside delle professoresse non possedesse qualcosa di più di quell’intuitivo filo diretto con la vita privata dei colleghi, che generalmente le si attribuiva. Fu solo un attimo. Dopo tutto, l’affabile sollecitudine era una necessità professionale, per la preside.