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— No, Ponter, dall’altra parte! — strillò Hak. Troppo tardi.

La fiancata destra cozzò contro un albero, il cubo si capovolse e si schiantò.

— Tutti interi? — gridò Mary.

— Sì — risposero Reuben e, poco dopo, Louise.

— Ponter? Nessuna risposta.

Mary si voltò verso di lui. — Ponter!

Lui si stava esaminando il polso sinistro; doveva aver subito un urto. Aprì con una certa difficoltà la mascherina del Companion, che appariva deformata.

Quando Ponter alzò il viso, aveva le lacrime agli occhi. — Hak è gravemente danneggiato… — disse, tradotto da Christine.

— Dobbiamo andare — gli sussurrò Mary.

Ponter osservò ancora il proprio Companion, poi annuì, e manovrò per aprire il portellone. Reuben si arrampicò all’interno della fiancata, raggiunse l’orlo e saltò a terra seguito da Louise. Ponter diede una mano a Mary, poi si chinò a osservare il fondo del veicolo. Le ventole erano ridotte a una scultura futurista.

— Non sembra in grado di volare, eh? — disse Mary. Ponter sospirò sconsolato.

— Quanto siamo lontani dalla miniera? — chiese lei.

— Ventuno chilometri — rispose Christine.

— E dove si trova il cubo più vicino?

— Un attimo… — disse Christine. — Eccolo. Sette chilometri in direzione ovest.

Merde — fece Louise.

— Deciso. Si prosegue a piedi — disse Mary.

Diventava sempre più buio, e loro si trovavano in mezzo al nulla. Mary aveva visto parecchia fauna selvatica in quella zona, perciò era terrorizzata dalla prospettiva di cosa avrebbero potuto incontrare.

Si fecero largo nella neve per cinque ore. Ad aprire la fila, data la lunghezza delle gambe, era spesso Louise. Comparve la costellazione che i barast chiamavano Testa del Mammut.

Proseguirono. A Mary si stavano congelando le orecchie.

Finché…

Ossa! — gridò Ponter.

Si teneva stretto a Reuben. Sollevò la mano, e…

Mary ebbe un sussulto, Louise emise un grido isterico. La mano di Ponter era macchiata di sangue, che nella luce lunare appariva nero. La febbre emorragica era uscita dall’incubazione.

In preda all’angoscia, Mary osservò Ponter. Però, a parte un’espressione attonita, non aveva segni particolari sul volto.

Lei gli si avvicinò, gli afferrò il braccio libero. E in quel momento si accorse che non era Reuben che aiutava Ponter. Era il contrario. Il viso del medico era coperto di sangue; gli colava dagli occhi, dalle orecchie, dalle narici, dagli angoli della bocca. Combattendo la tentazione di vomitare, Mary aiutò Ponter a sorreggerlo.

Anche Louise si era accostata, e asciugava i lineamenti del fidanzato con la manica del cappotto, poi con le mani nude. Ma ne sgorgava talmente che tamponarlo era impossibile.

Ponter posò delicatamente Reuben nella neve. Chiazze di sangue picchiettarono il candore del suolo.

— Mio Dio — gemette Mary.

— Reuben, mon cher… — disse Louise, accovacciala accanto a lui.

— Lou… ise… — mormorò lui. — Amore, io… — Tossì, sputando liquido rosso. Poi disse, nella lingua delle loro confidenze: — Je t’aime.

La testa di Reuben le scivolò dalle dita, e ricadde. Lei piangeva.

Poi cominciò a gridare.

Mary le si inginocchiò accanto, la strinse a sé, le accarezzò i lunghi capelli castani.

Qualche minuto dopo, Ponter sfiorò la spalla a Louise, che sollevò lo sguardo verso di lui. — Non possiamo rimanere qui — disse lui, tradotto da Christine.

— Ponter ha ragione — disse Mary. — Sta diventando troppo freddo qui fuori. Dobbiamo muoverci.

Louise piangeva ancora. Strinse i pugni. — Quel bastardo! — ringhiò. — Quel maledetto bastardo!

— Louise… — tentò di calmarla Mary.

— Ma non capisci? — disse lei. — Non vedi cos’ha fatto Krieger? Non gli bastava annientare i neanderthal, voleva sterminare anche i neri. — Scosse la testa. — Ma… ma non io sapevo che un virus fosse così rapido…

— Di solito ne bastano poche particelle — disse Mary — che richiedono un certo periodo per moltiplicarsi all’interno dell’organismo. Ma noi siamo stati immersi in un’intera nube virale. — Osservò il cielo. — Dobbiamo trovare un rifugio.

— E Reuben? Non possiamo lasciarlo qui così.

Mary azzittì Ponter con uno sguardo, prima che il pragmatismo neanderthaliano gli facesse dire qualcosa del tipo: “Reuben non è più tra noi”.

— Torneremo a prenderlo domani — disse Mary. — Ora però abbiamo bisogno di riparo.

Louise esitò per lunghi secondi. Mary non la disturbò. Alla fine, la ragazza annuì.

Soffiava un vento gelido. — Christine — chiese Mary — c’è nei dintorni un posto per mettersi al coperto?

Il Companion eseguì una rapida ricerca in Rete. — Secondo il database centrale, c’è un capanno per cacciatori non lontano da dove il cubo ha avuto l’incidente. Sarà un tragitto più facile che tornare in Centro.

— Andate voi due — disse Ponter. — Io proverò a raggiungere la camera di decontaminazione, e… perdonatemi, ma con voi al seguito sarei impacciato.

A Mary il cuore batteva all’impazzata. Erano tante le cose da dire… Ma Ponter tagliò corto: — Me la caverò. Vedrai.

Mary inspirò a lungo, poi fece cenno di sì. Si abbracciarono; quindi lui scomparve nella notte. Le due donne si strinsero reciprocamente in vita e seguirono le indicazioni di Christine.

Dopo un po’, Louise inciampò e cadde in avanti nella neve. — Tutto okay? — chiese Mary, aiutandola a rialzarsi.

Oui. È che la mia mente vaga per conto suo. Era… un uomo così meraviglioso.

Ci volle loro un’ora per raggiungere il capanno. Somigliava all’abitazione di Vissan, ma più grande. Entrando, le due donne azionarono automaticamente delle fredde luci verdi. C’era anche una sorta di stufetta, e dopo qualche tentativo riuscirono ad accenderla. Mary si guardò l’orologio e scosse la testa: Ponter non era ancora a destinazione.

Erano entrambe esauste. Louise si distese su un divano, si raggomitolò e pianse a bassa voce. Mary si allungò sui cuscini a terra. Anche lei pianse.

Un bravo ragazzo era morto.

42

“Se poi, come afferma un’altra teoria, questo e altri universi pullulano di vita intelligente, allora nel compiere i prossimi passi avremo un ulteriore dovere: quello di dare il meglio di noi stessi. Così che tutte le altre forme di vita possano ammirare la grandezza dell’Homo sapiens…”

Quella notte Mary pregò mollo, sottovoce: — Dio del cielo, Dio di misericordia, salvalo…

E poi: — Dio, ti prego, non permettere che Ponter muoia…

E poi ancora: -r- Maledizione, hai già un debito con me!

Dopo essersi rigirata per tutta la notte, in preda a incubi in cui affogava in un mare di sangue, Mary fu svegliata dai raggi del sole che filtravano da una finestra. Dall’esterno giungeva il kek-kek-kek delle colombe migratrici.

Anche Louise era sveglia. Fissava il soffitto di legno.

Il capanno era dotato di impianto sotto vuoto per la conservazione degli alimenti e di forno laser. Nel “frigo” c’erano pezzi di carne di qualche animale e alcune radici, Mary le fece cuocere per colazione.

Sedettero a un tavolino quadrato.

— Come va? — chiese Mary quando ebbero terminato. Non l’aveva mai vista in quello stato.

— Tutto okay — rispose lei, mentendo.

Mary non sapeva bene come proseguire. Era indecisa se permettere all’amica di sfogarsi o se tenere sotto silenzio l’argomento Reuben. Poi si ricordò dello stupro, e della propria incapacità di pensare ad altro, all’indomani.