Uno degli umanoidi si arrampicò sul parapetto dietro di noi e cercò di saltare oltre il pozzo alle nostre spalle. Ma non riuscì a percorrere l’intera larghezza della voragine e cadde nell’abisso emettendo grida strazianti.
Da alcuni minuti avevo bloccato gli impulsi nervosi che portavano alla mia mente le sensazioni del dolore e della fatica, ma a ogni colpo il mio braccio si faceva più pesante e più lento. Gli artigli di un rettile mi colpirono il petto, e altri mi ferirono il viso. La fine era ormai prossima.
Nel caos della battaglia compresi che non volevano ucciderci. Morivano a decine per obbedire all’implacabile comando di Set, che ci voleva vivi. Una morte rapida non era ciò che voleva per noi.
Non gli avrei permesso di posare nuovamente le sue zampe crudeli sulla mia dea. Con un guizzo finale delle mie forze afferrai Anya per la vita e la spinsi con me oltre l’orlo del pozzo che scendeva verso le forze implacabili del nucleo terrestre.
Cademmo sempre più in basso. Giù verso il cuore fuso della Terra.
E la morte.
LIBRO SECONDO
Purgatorio
14
Cademmo sempre più in basso.
Illuminati dall’intenso bagliore rosso, laggiù sotto di noi, Anya e io eravamo privi di peso, in caduta libera come paracadutisti o astronauti a gravità zero. Sembrava di galleggiare a mezz’aria, fluttuando nel nulla, arrostendo a fuoco lento nel calore intenso che saliva dal basso. Un vento infuocato simile all’alito caldo di un motore a razzo urlava contro di noi. Non riuscivamo a respirare, non potevamo parlare.
Ordinai al mio corpo di estrarre ossigeno dai vacuoli delle cellule: un espediente temporaneo, ma sempre meglio che essere costretti a respirare anche una sola boccata di quell’aria così rovente da bruciare i polmoni. Mi augurai che Anya avesse avuto la stessa idea.
Il poco che avevo potuto leggere nella mente di Set aveva rivelato che quel pozzo apparentemente senza fondo in cui stavamo cadendo scendeva fino al nucleo della Terra; il suo tremendo calore forniva potenza a un dispositivo distorsore in grado di scagliarci in un altro luogo e in un altro tempo.
Era l’unica possibilità di cui potessimo disporre per sfuggire a Set e alla morte lenta che aveva preparato per noi. O alla morte nel rovente abbraccio del metallo fuso che si faceva sempre più vicino.
Strinsi Anya a me, e lei mi passò un braccio intorno al collo. Non scambiammo una sola parola. Quell’abbraccio diceva già tutto da solo. Pensai che Set e i suoi rettili non avrebbero mai potuto conoscere quel tipo di intimità, quella condivisione del piacere nel contatto corporale, retaggio esclusivo dei mammiferi.
Serrando le palpebre, cercai di riportare alla mente le sensazioni dei miei precedenti passaggi attraverso lo spaziotempo. Cercai con tutte le forze di contattare i Creatori, inutilmente. Continuavamo a cadere verso il centro della Terra, avvinghiati l’uno all’altra in caduta libera mentre il calore che ribolliva sotto di noi cominciava a far sfrigolare le nostre carni.
Energia. Era necessaria l’immensa energia del cuore infuocato di un pianeta, o quella delle irradiazioni di una stella, per distorcere il flusso spaziotemporale e creare una spaccatura nel continuum.
Più ci avvicinavamo al metallo fuso del pozzo di Set e più l’energia si approssimava a quella necessaria per il salto. Soltanto che quella stessa energia ci stava uccidendo, togliendoci il respiro, bruciandoci le carni.
Non avevamo scelta. Spinsi il mio corpo a utilizzare ogni singola goccia d’umidità per avvolgermi nel sudore, nella speranza che quello strato sottile potesse assorbire parte del calore mantenendomi in vita almeno per qualche istante.
Il volto di Anya, così vicino al mio, cominciò a brillare. Pensai che gli occhi mi si stessero liquefacendo, ma poi la sentii dissolversi nel nulla.
Il suo bel volto assunse un’espressione amara, disperata. Quindi prese a ondeggiare e vacillare sotto i miei occhi, cominciò a offuscarsi e a sbiadire e infine svanì in un’ombra diafana e spettrale.
Sempre fra le mie braccia, Anya mutò forma. Il suo corpo solido si dissolse nel nulla, e tutto ciò che vidi di lei fu una sfera raggiante di luce argentea, debolmente screziata di rosso a causa del chiarore sotto di noi.
Compresi allora con chiarezza come effettivamente lei fosse una dea, tanto progredita rispetto alla mia forma umana quanto lo sono io rispetto a quella di un’alga. Aveva mantenuto le sue spoglie umane soltanto per amor mio.
Adesso, di fronte alla morte, aveva fatto ritorno alla sua vera essenza, quella di un globo di pura energia che pulsava e si riduceva sotto i miei occhi.
— Addio — disse la sua voce nella mia mente. — Addio, amore.
Il globo argenteo scomparve, e io rimasi solo e abbandonato nella mia discesa verso l’inferno.
Mi costrinsi a pensare che almeno lei si sarebbe salvata. Era riuscita a fuggire, forse era addirittura riuscita a fare ritorno presso gli altri Creatori, dissi a me stesso. Ma non potei nascondere l’amarezza che cresceva dentro di me, l’oscura sofferenza che si riversava in ogni atomo del mio essere. Mi aveva abbandonato, mi aveva lasciato solo ad affrontare il mio destino. Sapevo che aveva agito per il meglio, eppure mi sentivo inghiottire in un abisso di dolore infinito, più scuro e profondo del pozzo nel quale stavo cadendo.
Lanciai un disarticolato, inutile grido di rabbia nel quale era racchiuso tutto il mio furore contro Set e i suoi oscuri poteri, contro i Creatori che mi avevano dato vita solo perché compissi il loro volere e contro la dea che mi aveva abbandonato.
Anya mi aveva lasciato solo. C’era un limite a ciò che una dea era in grado di affrontare per amore di un mortale. Ero stato uno stupido a pensare che potesse non essere così. Dolore e morte erano retaggio dei miserabili esseri che servivano i Creatori; di certo non si addicevano agli dèi.
Poi, un’ondata di freddo intenso fluì dentro di me come il respiro dell’angelo della morte, come se fossi penetrato nel cuore di un antico ghiacciaio o nelle più remote profondità dello spazio intergalattico. Un gelo e un’oscurità così assoluti da farmi temere che ogni molecola del mio corpo si fosse congelata.
Volevo gridare, ma non avevo corpo. Non c’era più nessuno spazio, nessuna dimensione. Esistevo, ma senza una forma mia propria, senza vita, in una vacuità in cui non c’erano né luce, né calore, né tempo.
Nell’essenza immateriale che era la mia mente vidi un globo, un pianeta, un mondo in lenta rotazione sotto di me. Sapevo che era la Terra, ma come non l’avevo mai vista prima. Era un mondo marino, coperto interamente dall’oceano, azzurro e abbagliante sotto la luce del sole. Lunghe processioni di nuvole fra le più bianche e pure che avessi mai veduto fluttuavano alla deriva sopra quel globo d’acqua. L’oceano non possedeva un’isola sufficientemente grande da essere visibile dal punto in cui mi trovavo. I poli erano liberi dai ghiacci e coperti anch’essi da un’acqua di intenso colore blu.
Il pianeta girava lento e maestoso sul suo asse, ma alla fine riuscii a scorgere una terra. Un unico continente brunoverde e immenso: l’Asia, l’Africa, l’Europa, le Americhe, l’Australia, l’Antartico e la Groenlandia tutte unite in una sola, gigantesca massa di terra. Anch’essa era costellata di mari interni, di laghi estesi quanto l’India, di fiumi più lunghi dell’eterno Nilo e più ampi del mitico Rio delle Amazzoni.