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Un antico aforisma si formò spontaneo nella mia mente: il rango ha i suoi privilegi. Una dea, una creatura altamente evoluta, discendente dal ceppo umano ma così avanzata rispetto all’umanità da non aver bisogno di un corpo fisico… una creatura simile sarebbe stata certamente in grado di passeggiare con tutta tranquillità in un paesaggio del Cretaceo, al seguito di un branco di tirannosauri. La morte per lei non aveva alcun significato.

Per me era un’altra cosa. Ero morto e tornato in vita molte volte, ma sempre per volere dei Creatori. Ero una loro creatura; un essere umano, decisamente mortale. Non potevo sapere se la mia morte sarebbe stata definitiva, non avevo alcuna garanzia di essere salvato dall’oblio eterno e di tornare nuovamente in vita.

Milioni di anni dopo il buddismo avrebbe insegnato che tutti gli esseri viventi sono legati alla grande ruota della vita, destinati a morire e reincarnarsi all’infinito. L’unica via d’uscita da questo circolo vizioso sarebbe il raggiungimento del nirvana, l’oblio totale, una definitiva fuga dal mondo, come essere risucchiati da un buco nero e scomparire per sempre dall’universo.

Non volevo raggiungere il nirvana. Non avevo ancora soddisfatto tutti i miei desideri. Amavo una dea, e desideravo con tutto il cuore che lei amasse me. Lei diceva di amarmi, ma nei tremendi momenti in cui ero solo nella discesa di quel pozzo senza fondo, avevo compreso pienamente quanto non fosse umana, non nel modo in cui lo sono io, nonostante il suo aspetto esteriore.

Temevo che l’avrei perduta. O peggio ancora, che si sarebbe stancata dei miei ristretti limiti di essere umano, abbandonandomi per sempre.

15

Per tre giorni rimanemmo in quella palude colma di vapori, perché potessi riprendere le forze. Ero certo che Anya e io fossimo gli unici esseri umani sull’intero pianeta… anche se in effetti lei era qualcosa di più.

La palude era calda e umida. Il terreno era scivoloso sotto i nostri piedi, e ogni passo era una vera e propria lotta contro le fitte felci e le foglie, più grosse dell’orecchio di un elefante che si appiccicavano alla nostra pelle ogni volta che venivano a contatto con esse. I rampicanti imperavano ovunque soffocando gli alberi, scaturendo dal terreno muschioso col risultato di rendere più difficoltosa la nostra marcia.

Il fetore della decomposizione era tutt’intorno a noi, un odore di morte. Il calore era opprimente, l’umidità risucchiava tutte le forze dal mio corpo.

Mi sentivo in trappola, imprigionato in un mondo scintillante di vegetazione coperta d’acqua. La giungla ci opprimeva come un’entità viva, premendo tutta l’aria fuori dai nostri polmoni, nascondendoci il mondo alla vista. Non riuscivamo a scorgere a più di qualche metro davanti a noi in tutte le direzioni, a meno di avanzare nel corso del fiumiciattolo fangoso, e anche allora la vegetazione della giungla ostacolava la nostra vista a tal punto che un branco di brontosauri avrebbe potuto benissimo trovarsi a breve distanza da noi senza che riuscissimo a scorgerli.

Non c’era granché da mangiare. Le piante erano tutte strane ai nostri occhi, e ben poche di esse producevano frutti o bacche dall’aspetto commestibile. Gli unici pesci che fossimo in grado di scorgere in quelle acque scure erano minuscoli guizzi d’argento, troppo piccoli e veloci perché potessimo catturarli. Ci nutrivamo di rane e piccole larve d’insetti, nauseanti ma abbastanza nutrienti.

Ogni sera la pioggia scendeva a dirotto dalle grosse nuvole grigie che si formavano durante il caldo estenuante del pomeriggio. La mia pelle era sempre bagnata. Dopo tre giorni e tre notti di vapore e umidità, anche Anya cominciò a palesare un certo disagio.

Il cielo era quasi sempre grigio. L’unica notte in cui riuscii a vedere le stelle, finii col rimpiangere di averlo fatto. Mentre Anya era immersa nel sonno, cercai di scorgere il disegno di qualche costellazione a me familiare. Tutto ciò che riuscii a scorgere fu la lugubre stella rossa, alta nel cielo scuro che continuava a spiarci.

Cercai Orione, la costellazione di cui porto il nome, ma non riuscii a trovarla. Infine individuai l’Orsa Maggiore, e il cuore sembrò sprofondarmi in petto. Era radicalmente diversa dal Carro che avevo conosciuto in altre epoche. La sua sagoma squadrata era snella e appiattita, più simile a quella di una brocca che non a quella di un carro. La sua estremità era più ricurva che mai.

Eravamo lontani così tanti milioni di anni da qualsiasi epoca avessi mai conosciuto, che persino le stelle erano mutate. Rimasi a guardare quel Carro così irriconoscibile e mi sentii scoraggiato, distrutto, roso da una malinconia quale non avevo mai provato.

A parte qualche elusiva creatura pelosa che viveva sui rami più alti degli alberi, non scorgemmo mai altri mammiferi. I rettili, al contrario, erano ovunque.

Un mattino Anya stava riempiendo una zucca presso l’orlo del ruscello quando improvvisamente un gigantesco coccodrillo balzò fuori dall’acqua; era rimasto in agguato col massiccio corpo squamato nascosto tra le canne e le foglie galleggianti, lasciando fuori dall’acqua soltanto gli occhi e le narici. Anya dovette correre a perdifiato e arrampicarsi sull’albero più vicino per sfuggire all’attacco del coccodrillo il quale, nonostante le ridotte dimensioni delle proprie zampe, per poco non riuscì a catturarla.

Nella palude vivevano tartarughe e lucertole dalla lunga coda e grandi come maiali, nonché un’infinità di serpenti che strisciavano sinuosi nell’acqua e sugli alberi.

Ma i veri dominatori di quel mondo erano i dinosauri. Non tutti erano di dimensioni gigantesche. Usando un grosso ramo a mo’ di mazza, Anya aveva cercato di ucciderne uno poco più grande di una gallina. Abituato a scappare dai suoi più mastodontici cugini, l’animale era riuscito a fuggire, sibilando come una teiera.

Un pomeriggio vidi un rettile simile a un armadillo avanzare verso di noi. Dietro di sé trascinava una coda corta e munita di spuntoni dall’aspetto letale.

Gli insetti ronzavano e sciamavano intorno a noi, ma mai nessuno di loro c’infastidì. Dapprima trovai quel fatto piuttosto singolare, ma poi compresi che i mammiferi erano così pochi che gli insetti non avevano ancora sviluppato la tendenza di succhiarne il sangue.

La terza notte dissi ad Anya che mi sentivo sufficientemente forte per mettermi in cammino.

— Sei sicuro?

— Sì. È ora che lasciamo questo buco d’inferno.

— Per andare dove? — domandò lei.

Scrollai le spalle. L’acquazzone serale era appena terminato. Sedevamo rannicchiati su un ramo, coperti da un rifugio improvvisato costruito alla bell’e meglio con alcune grosse foglie. Non si era rivelato molto utile; i rigagnoli di pioggia si erano incanalati tra le venature, col risultato che ci eravamo bagnati lo stesso. Gli ultimi brandelli di pioggia cadevano a gocce da migliaia di foglie, trasformando il nostro mondo verde in una scintillante sinfonia di gocce cristalline. Le vesti di Anya erano sporche e logore. I miei abiti pendevano stracciati e maleodoranti dal mio corpo.

— In qualsiasi altro posto. Sempre meglio che qui — risposi.

Anya fece un cenno d’approvazione col capo.

— Più lontano possibile da questo luogo — aggiunsi.

— Hai sempre paura che Set possa venire alla nostra ricerca?

— E tu no?

— Suppongo che dovrei. Ma continuo a pensare che non sia più costretto a occuparsi di noi. Siamo in trappola, qui: perché mai dovrebbe spendere tempo prezioso alla nostra ricerca? Moriremo qui, amore mio, in quest’epoca dimenticata da tutti, dove nessuno potrà mai aiutarci.