Fra le ombre della sera il suo bel volto era triste, la sua voce mesta e demoralizzata. Nel Neolitico avevo desiderato di poter trascorrere una vita normale insieme ad Anya, ma la fresca foresta di Paradiso era del tutto diversa da quella fetida giungla in decomposizione. Anche se ci avevano traditi, a Paradiso almeno esistevano altri esseri umani. In quella palude, invece, eravamo completamente soli.
— Non siamo ancora finiti — dissi. — E non intendo aiutare Set a sopprimerci.
— Perché mai dovrebbe farlo?
— Perché questo è un periodo della massima importanza per lui — risposi. — Sa bene in che epoca aveva focalizzato il suo distorsore spaziotemporale; sa bene che siamo qui. Quando potrà far funzionare nuovamente l’apparecchio verrà a cercarci, per assicurarsi che non interferiamo in ciò che ha in serbo per questo momento del continuum.
Anya comprese la logica del mio ragionamento, ma rimase ugualmente indecisa sul da farsi.
— Faremo meglio ad allontanarci da questa dannata palude — aggiunsi. — Non è un posto in cui ci sia possibile rimanere. Partiremo domani, alle prime luci del mattino. Dirigeremo verso i monti, dove il clima è più fresco e asciutto.
Nelle ombre sempre più fitte vidi i suoi occhi scintillare d’improvviso interesse. — Potremmo seguire la via percorsa dai becchi-d’anatra. Si muovevano verso un territorio più elevato, ne sono sicura.
— Coi dinosauri dietro di loro — brontolai.
— Già — disse lei, ritrovando parte dell’entusiasmo che avevo udito nella sua voce tre giorni prima. — Sono curiosa di vedere se li hanno attaccati.
— Ci sono momenti — dissi — in cui si direbbe che tu sia assetata di sangue.
— La violenza è parte integrante del retaggio umano, Orion. E sono ancora sufficientemente umana da provare l’eccitazione della caccia. Tu no, forse?
— Soltanto quando il cacciatore sono io.
— Tu sei il mio cacciatore — disse lei.
— E ho già trovato ciò che cercavo. — La tirai verso di me.
— Essere una preda non è poi tanto male — Anya mi sussurrò in un orecchio. — In certi casi.
16
La mattina seguente c’incamminammo verso le colline. Mi ero aspettato di trovare un mondo più familiare, un paesaggio fitto d’erba e fiori con cani, conigli e cinghiali selvatici. Sapevo che non avrei potuto incontrare altri esseri umani, ma ugualmente il mio subconscio andava alla ricerca di forme di vita a me familiari.
Ciò che incontrammo invece fu un mondo di dinosauri e pochi altri esseri viventi. Enormi pterosauri alati scivolavano senza sforzo nel vento fra cieli picchiettati di nuvole. Minuscoli dinosauri quadrupedi gironzolavano fra macchie di vegetazione. I loro cugini maggiori si profilavano come montagne, brucando miti le felci e i cespugli più teneri che crescevano su quella terra.
Non c’erano fiori in quel paesaggio così remoto, o almeno nessuno che fossi in grado di riconoscere come tale. Sulla cima di alcuni cespugli di forma vagamente cilindrica crescevano gruppetti di foglie colorate. Per il resto, tutte le piante che incontravamo avevano un aspetto sgradevole, repellente; erano armate di spine e di polloni, soffici, carnose e del tutto aliene.
Neanche gli alberi mi apparvero familiari, a eccezione di qualche occasionale gruppetto di cipressi e delle mangrovie che crescevano fitte presso qualsiasi corso d’acqua, con le radici contorte e nodose saldamente aggrappate al terreno zuppo, come centinaia di dita robuste. E palme, alcune delle quali estremamente grandi, dal tronco nudo e squamato, le foglie ondeggianti nel vento umido sopra di noi. Non esistevano erbe o cereali; soltanto distese ondeggianti di canne.
Di notte ci arrampicavamo su un albero, sebbene sapessi che i dinosauri dormivano di notte come noi. Eppure, disarmati com’eravamo contro i tirannosauri e i loro cugini carnivori, non avevamo alcuna alternativa se non quella di nasconderci o fuggire.
Durante i primi giorni di marcia non scorgemmo altri tirannosauri, anche se il terreno era disseminato delle loro impronte a tre dita. Anya insistette affinché seguissimo le loro orme, che avanzavano insieme a quelle ancora più profonde dei becchi-d’anatra. In alcuni punti, anzi, le impronte dei predatori coincidevano nel terreno esattamente con quelle delle loro prede.
C’erano anche altri carnivori. Predatori che avanzavano veloci su due zampe, alti poco più di un uomo. Correvano a coda distesa afferrando le loro prede con le zampe anteriori. E dinosauri più piccoli che sbuffavano e sibilavano come vaporiere mentre le zanne e gli artigli dei grossi carnosauri ne straziavano le carni.
Anya e io ci gettavamo a terra ogni volta che ne scorgevamo uno. Armati soltanto dei nostri sensi, ci appiattivamo sul terreno umido rimanendo immobili. Non venimmo mai attaccati. Non potrei dire se fu perché non ci avessero mai scorti o perché non ci consideravano carne per i loro denti. Né avevo particolare desiderio di scoprirlo.
Una volta incontrammo una mezza dozzina di triceratopi che si abbeveravano sulla riva di un torrente, ognuno più grande di quattro rinoceronti, con tre lunghe corna che sporgevano dal capo e un massiccio scudo osseo sulla base del cranio. I loro fianchi grigi erano pezzati di rosso, giallo e marrone. Erano piuttosto goffi ed estremamente nervosi. Un paio di carnosauri bipedi e carnivori si fecero avanti nel torrente; non tirannosauri, ma animali comunque piuttosto grossi, coi denti lunghi e dall’aspetto minaccioso.
I triceratopi si guardarono intorno e si disposero in formazione uno di fianco all’altro, a testa bassa, le lunghe corna puntate contro i dinosauri carnivori come una fila di lance. I carnosauri sbuffarono e soffiarono, zigzagando nervosamente sulle lunghe zampe posteriori per valutare la situazione. Quindi si voltarono e si allontanarono veloci.
Mi sentii quasi dispiaciuto. Non che agognassi particolarmente di esser testimone della violenza e dello spargimento di sangue di una battaglia di dinosauri. Pensavo semplicemente che, a prescindere da chi sarebbe stato il vincitore, avremmo potuto contare su un bel po’ di carne. Non avevamo potuto mangiare altro se non qualche piccolo dinosauro e alcuni mammiferi pelosi che avevamo ucciso con le nostre clave. Un bel pezzo di carne l’avrei senz’altro gradito.
Durante la seconda notte di viaggio mi svegliai nell’oscurità più totale con un’acuta sensazione di pericolo. Anya e io eravamo rannicchiati sul ramo di un albero.
Non eravamo soli. Percepivo la minacciosa presenza di qualcuno… o qualcosa. Ma in quelle tenebre non mi era possibile scorgere quasi nulla. La notte era immersa nel silenzio, se si vuole eccettuare il brusio degli insetti in sottofondo. In quell’epoca l’ululato dei lupi non risuonava ancora nella notte, né il ruggito dei leoni. Soltanto i progenitori dei topi di campo e degli scoiattoli erano svegli e attivi nell’oscurità, e cercavano di produrre quanto meno rumore possibile.
Le nuvole si divisero. La luna era ancora bassa, ma la stella rossa che avevo già veduto nel Neolitico brillava alta sopra la mia testa. Nella sua luce mi sembrò di ravvisare il luccichio di un paio di occhi malvagi che mi fissavano.
Senza attendere un comando cosciente, il mio corpo entrò in ipervelocità. Appena in tempo, proprio mentre un grosso serpente si avventava contro di me, le mascelle spalancate, le zanne già traboccanti veleno. Vidi il suo capo indietreggiare e poi scattare verso di me, il tutto al rallentatore.
La mia mano destra si strinse intorno al collo del serpente, così grosso che le mie dita riuscivano a coprire soltanto metà della sua circonferenza. Il contraccolpo di quel lungo corpo muscoloso per poco mi scaraventò oltre il ramo. Ma riuscii a serrare le gambe e la mano ancora libera intorno a esso, mentre con la schiena colpivo il tronco dell’albero con tale violenza da farmi uscire tutto il fiato dai polmoni.