“E allora?” risposi a quella voce nella mia mente. Comunque la razza umana era sopravvissuta a tutto ciò cui gli dèi del continuum ci avevano costretti. Adesso dovevo affrontare il diavolo incarnato, e quegli istinti sarebbero stati la mia unica protezione. Di nuovo avrei dovuto contare sulle capacità istintive del cacciatore: scaltrezza, forza, circospezione e, soprattutto, pazienza.
— Dobbiamo entrare — disse Anya, guardando ancora con occhi sbigottiti il castello immerso nelle tenebre.
Feci un cenno di assenso. — Prima, però, dobbiamo scoprire cos’ha intenzione di fare in quest’epoca, e perché.
Il che significava che dovevamo nasconderci e rimanere a osservare, guardando senza essere visti. Anya convenne sull’utilità di quella strategia, sebbene la rendesse inquieta. Avrebbe preferito penetrare nel castello con la forza. Sapeva che tale desiderio non aveva praticamente nessuna probabilità di riuscita, e che avremmo dovuto aspettare il momento più propizio. Ma ugualmente esitò prima di dirsi d’accordo.
Raccolsi il piccolo becco-d’anatra dalle sue braccia e guidai il nostro sparuto gruppetto fra gli alberi, tenendomi alla larga dai tirannosauri che dormivano nel bosco. Il piccolo dinosauro sembrava più pesante di quanto non lo fosse stato prima. O ero più stanco di quanto non pensassi, o stava crescendo con estrema rapidità.
Ci aprimmo la strada con molta cautela attraverso la fitta boscaglia. Il becco-d’anatra era sempre addormentato, e fortunatamente anche i tirannosauri intorno a noi.
— Questo tuo cucciolo presto diventerà un problema — sussurrai ad Anya che mi seguiva da vicino mentre scostavo felci e rovi con la mano libera.
— Niente affatto — bisbigliò lei in risposta. — Se m’insegnerai a controllarla, potrà uscire in esplorazione per noi. Cosa di più normale in questo mondo di un piccolo dinosauro a spasso nella foresta?
Fui costretto ad ammettere che, almeno in parte, aveva ragione. Mi chiesi tuttavia se i becchi-d’anatra fossero soliti allontanarsi da soli. Sembravano animali usi ad andare in branco, come tanti altri erbivori che nel numero trovavano sicurezza.
Ci fermammo in un luogo in cui una grossa palma era caduta su un masso. Sotto il tronco caduto cresceva un fitto groviglio di rovi, e di fronte a esso una folta macchia di canne. Usando le lance a mo’ di pale scavammo nella sabbia una trincea, larga appena a sufficienza da permettere di sistemarcisi sul fondo. Col grosso tronco sopra di noi, il macigno su un lato e i cespugli a proteggerci la retrovia, quel rifugio era ragionevolmente sicuro. Tra le canne e le felci era possibile osservare il lago.
— Niente fuoco finché staremo qui — dissi.
Anya sorrise con soddisfazione. — Mangeremo pesce crudo, e assaggeremo le bacche e i frutti dei vari cespugli.
Cominciò così quello che divenne un lungo susseguirsi di settimane d’osservazione. Ogni mattina il castello s’immergeva nel lago; l’intera sua struttura, titanica, affondava lentamente nell’acqua spumeggiante come se temesse la luce del sole. E ogni notte emergeva nuovamente, gocciolante e scura come un gigante malvagio.
Mentre il castello era immerso sott’acqua uscivamo a pescare e cacciare. Facevamo bene attenzione a evitare i tirannosauri che si muovevano fra i boschi e al di là di essi. Per la verità, non sembravano particolarmente interessati a seguire le nostre impronte. Piuttosto il contrario: sembravano ignorarci.
Cominciai a insegnare ad Anya a controllare il nostro becco-d’anatra, che stava rapidamente assumendo età e dimensioni più mature. Anya l’aveva chiamata Giunone, e quando gliene chiesi il motivo scoppiò a ridere.
— Uno scherzo, Orion, che soltanto i Creatori potrebbero apprezzare.
Sapevo che i Creatori di tanto in tanto si fregiavano del nome di qualche dio dell’antichità. Il Radioso si faceva chiamare Ormazd, ma in altre occasioni si era dato nome Apollo, o Yaweh. Anya stessa era stata adorata col nome di Atena tanto dagli Achei quanto dai Troiani. Doveva esserci anche una Giunone fra di loro, e Anya si era divertita a battezzare con il suo nome il nostro becco-d’anatra dai piedi piatti e il dorso arrotondato.
Dopo alcuni giorni cominciai a notare che il castello usciva dall’acqua ogni notte un po’ più tardi, per attardarsi un po’ più a lungo ogni mattina. Dapprima la cosa mi sorprese, ma ero molto più interessato a sorvegliare il viavai dentro e fuori di esso piuttosto che le sue emersioni e immersioni. Alle prime luci dell’alba divenne possibile osservare con maggiore chiarezza cosa stava accadendo e perché.
Ogni volta che il castello emergeva dall’acqua una rampa lunga e stretta si protendeva da un cancello posto fra le sue pareti, come la lingua di un serpente, per raggiungere la sponda del lago a circa un quarto della sua circonferenza rispetto al punto in cui io e Anya eravamo nascosti. Ogni giorno, invariabilmente, una dozzina di umanoidi di Set simili a quelli che avevamo incontrato nel Neolitico scendevano quella rampa verso la spiaggia, per poi sparire fra gli alberi.
I tirannosauri erano lì in attesa, richiamati presso le rive del lago da forze a noi sconosciute. Nell’oscurità della notte o alla pallida luce dell’alba gli umanoidi selezionavano una dozzina di quei giganti e si allontanavano con loro tra i boschi.
Non mi ci volle molto per intuire che ogni rettile controllava un solo tirannosauro. Ogni gruppo di umanoidi formava un branco di sauri da condurre con sé verso qualche misteriosa missione. Dopo alcuni giorni, la squadra faceva ritorno con il suo branco. Gli umanoidi rientravano nel castello e i tirannosauri s’incamminavano verso le paludi, che sembravano essere il loro ambiente naturale.
— Radunano qui i tirannosauri per impiegarli in qualche compito — concluse Anya una mattina piena di sole, quando il castello era affondato del tutto sotto la superficie del lago.
Camminavamo sulla sabbia diretti verso la nostra trincea, entrambi armati di lancia mentre il becco-d’anatra, che ormai mi arrivava alla cintola, sbuffava e fischiava affannosamente dietro di noi. Sulle spalle reggevo una cordicella alla quale erano assicurati tre pesci che avrebbero costituito la nostra colazione.
— Riesco a immaginare un solo impiego per i tirannosauri — dissi ad Anya, ricordando il massacro presso la collina dei becchi-d’anatra. — Ma non ne vedo il senso.
Anya aveva pensato la stessa cosa e si era posta la stessa domanda.
Se non altro, avevo compreso perché il castello emergeva dal lago ogni mattina qualche minuto più tardi. Saliva in superficie soltanto quando la stella rossa era alta nel cielo. E s’immergeva non appena la stella spariva sotto la linea dell’orizzonte.
Quando riferii ad Anya la mia scoperta, ella mi guardò con aria interrogativa. — Ne sei certo?
— La stella è così luminosa da essere visibile persino a mezzogiorno — risposi. E sono sicuro che il castello rimarrà in superficie alla luce del sole, nei prossimi giorni.
— Per cui Set non ha intenzione di nascondersi da nessuno — Anya rifletté.
— E da chi dovrebbe nascondersi? Da noi?
— Ma allora perché il castello s’immerge tutti i giorni? Perché non rimane in superficie?
— Non lo so — ammisi. — Ma prima è necessario rispondere a una domanda ancora più complessa: perché emerge soltanto quando quella maledetta stella appare nel cielo?
Anya rimase a bocca aperta. Si fermò dov’era, nel fitto fogliame che cresceva vicino al nostro rifugio. Poi si voltò e rimase a scrutare tra le foglie l’orizzonte verso occidente. La stella rossastra era quasi scesa sulla linea del lago, disegnando sull’acqua una striscia rossa e luminosa puntata come uno stiletto verso di noi.
Per altre due notti rimanemmo a guardare il castello emergere dall’acqua soltanto quando la stella era alta nel cielo, prossima allo zenit. Ormai rimaneva in emersione anche alla luce del giorno, per immergersi soltanto quando l’astro era basso sul lago.