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— Hai ragione — disse Anya. — segue la stella.

— Ma perché? — volevo sapere.

— Set deve provenire da uno dei mondi in orbita intorno a essa — Anya intuì. — Dev’essere la stella del suo pianeta natale.

L’altra nostra domanda, quali fossero i compiti delle squadre miste di umanoidi e tirannosauri, poteva trovare risposta in un solo modo: seguendone una. Non riuscivo a decidermi se fosse meglio allontanarci insieme o se avrei dovuto lasciare Anya presso il lago, perché continuasse a osservare ciò che accadeva presso il castello.

Lei desiderava venire con me, e alla fine mi dissi d’accordo. Non volevo lasciarla sola, perché non avremmo potuto comunicare una volta che ci fossimo separati. Se uno di noi avesse avuto bisogno d’aiuto, l’altro non avrebbe potuto saperlo.

Così un mattino impugnammo le lance e ci mettemmo all’inseguimento di un gruppo di nove umanoidi che seguivano a breve distanza un branco di nove tirannosauri. Li lasciammo allontanarsi oltre l’orizzonte prima di abbandonare il nostro rifugio, in modo che non potessero scorgerci. Non rischiavamo di perderne le tracce; anche un bambino poteva seguire le orme dei dinosauri, profonde nel morbido terreno argilloso.

Per tre giorni avanzammo imperterriti in quel paesaggio del Cretaceo. Piovve per metà del tempo, una pioggia fredda e grigia che scendeva da un cielo ancor più grigio e coperto da nuvole così basse che sembrava di poterle toccare soltanto sollevando un braccio. Il terreno si fece fangoso; il mondo si ridusse a quel poco che potevamo scorgerne attraverso la fitta pioggia. Il vento ci sferzava impietosamente.

La piccola Giunone non sembrava minimamente turbata dal brutto tempo. Masticava continuamente teneri arbusti trotterellando dietro di noi, un piccolo dinosauro in rapido sviluppo con un sorriso stupido costantemente dipinto sul becco e una coda piatta che trascinava dietro di sé.

Il nostro cammino mutò in un incedere difficoltoso attraverso quell’acquazzone, arrestandosi del tutto quando fu troppo scuro per proseguire. Improvvisammo un modesto accampamento su un piccolo rilievo roccioso a pochi metri d’altezza sopra il mare di fango. Quando il sole sorse di nuovo, la terra fumava letteralmente per l’umidità che trasudava dal terreno zuppo. Osservando le impronte notammo che i tirannosauri avevano proseguito nel fango alla stessa velocità con la quale avevano sempre avanzato. Si erano fermati soltanto per dormire, come avevamo fatto noi, gelati fino al midollo, bagnati, affamati e senza un fuoco.

Anche i tirannosauri dovevano avere fame, pensai. Doveva essere necessario un ingerimento di cibo pressoché incessante per muovere venti tonnellate di carne a quella velocità. Ma non notammo alcun segno di rallentamento nel loro passo, né ossa sul terreno o pterosauri in volo circolare a indicare il sito di qualche banchetto.

— Per quanto tempo possono andare avanti senza mangiare? — chiese Anya mentre il sole picchiava con violenza sulla terra facendone evaporare tutta l’umidità portata dalla pioggia. Il terreno trasudava una nebbia fredda, ma ero contento che fosse così: la nebbia ci proteggeva da eventuali occhi indagatori.

— Sono rettili — riflettei a voce alta. — Non hanno bisogno di mantenere costante la loro temperatura corporea. Possono resistere senza cibo molto più tempo di qualsiasi mammifero della stessa stazza.

— Ovviamente — disse Anya. Sembrava stanca. E affamata.

Catturammo un paio di dinosauri della taglia di grossi cani. Si crogiolavano pigramente al sole perché il calore potesse penetrare meglio nei loro corpi. Non mostrarono alcun timore al nostro approssimarci, perché non avevano mai visto un essere umano prima d’allora. E non ne avrebbero mai più visti altri.

Cercammo di accendere un fuoco, ma gli sterpi e i cespugli erano ancora così zuppi per la pioggia del giorno precedente che fummo costretti a mangiare quella carne senza cuocerla. Dovemmo masticare a lungo, ma se non altro c’era acqua in abbondanza per lavarla.

Usammo Giunone come assaggiatrice di tutto ciò che riguardava il regno vegetale. Se il becco-d’anatra mordicchiava una pianta e poi la sputava, ce ne tenevamo ben lontani. Se la masticava con aria felice, provavamo ad assaggiarla anche noi. Per quanto ne so preparammo la prima insalata mai apparsa sulla faccia della terra, composta di piante dalle foglie tenere che si sarebbero estinte alla fine del Cretaceo insieme ai dinosauri che se ne nutrivano.

Il terreno cominciò a salire e a farsi più asciutto. E ancora le profonde impronte dei tirannosauri continuavano a spingersi innanzi, finché insieme a esse comparvero le orme di altri dinosauri.

— Dev’essere un percorso migratorio — disse Anya, con voce eccitata.

Io tenevo d’occhio le colline di fronte a noi. — Non avanziamo troppo in fretta. Potremmo imbatterci in qualche branco di animali carnivori.

Dietro mia insistenza ci portammo a lato del sentiero scavato dai dinosauri. Scorgemmo le impronte degli artigli di molti carnosauri, alcuni fra i quali più piccoli dei tirannosauri.

A giudicare dalle apparenze, quella strada doveva essere percorsa dai becchi-d’anatra e altri sauri erbivori ogni anno all’incedere dell’inverno.

Furono di nuovo gli pterosauri a farci insospettire. Vorticavano a stormi nel cielo, sulla verticale di un punto al di là dei colli verso i quali eravamo diretti. Con imprudente curiosità Anya salì di corsa il pendio, impaziente di vedere cosa stava accadendo. Cercai di tenerle dietro, e anche la piccola Giunone partì al galoppo dietro di me.

Udimmo strilli, fischi e urla che non potevano provenire dai rettili alati in volo nel cielo. Erano suoni di terrore e di morte.

Anya raggiunse la cima del colle e s’irrigidì, atterrita. Mi portai al suo fianco e abbassai lo sguardo sulla vallata lunga e stretta sotto di noi.

Infuriava una vera e propria battaglia.

20

Migliaia di erbivori erano attaccati da centinaia di tirannosauri. La battaglia si snodava per vari chilometri di terreno spoglio e roccioso, già rosso e scivoloso per il sangue.

Una battaglia infuriava nella valle davanti ai nostri occhi, coi becchi-d’anatra, i triceratopi e altri erbivori quadrupedi più piccoli che cercavano disperatamente di oltrepassare la stretta imboccatura della gola e i tirannosauri, mostri distruttori, che ne facevano strage schiacciandone il dorso con quei loro terribili denti e straziandone i corpi coi loro artigli affilati come scimitarre.

Sembrava una battaglia navale d’altri tempi, con possenti corazzate a infrangere le file serrate dei galeoni. Riportava alla mente anche una banda di predoni a cavallo all’attacco di una grossa carovana.

Le urla e i fischi degli erbivori feriti echeggiavano strazianti tra le pareti rocciose della vallata. La nostra piccola Giunone emetteva penosi lamenti, stringendosi tremante al fianco di Anya.

Non riuscivo a scorgere nessun umanoide, nessun luogotenente di Set. Ma sapevo che dovevano essere da qualche parte lì intorno, nascosti fra le rocce o dietro qualche masso come noi, a dirigere i tirannosauri nel massacro dell’orda migrante.

La battaglia però non era del tutto priva di pericoli per gli aggressori. Nei pressi di un cumulo di rocce, tre triceratopi avevano caricato un tirannosauro, facendolo cadere a terra per poi trafiggerlo ripetutamente coi loro lunghi corni appuntiti. In un altro luogo, un piccolo dinosauro protetto da un’armatura che lo faceva somigliare a un armadillo era riuscito ad aprirsi la strada attraverso quel mare di polvere, per trovare scampo nell’aperta campagna che si stendeva oltre l’imboccatura della vallata.

Ma per lo più erano i tirannosauri a mietere vittime, senza sosta. Becchi-d’anatra, triceratopi e altri erbivori giacevano a terra in gran numero, straziati dai micidiali artigli.