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Avevo i polsi legati stretti dietro la schiena, e altre corde o rampicanti mi circondavano le braccia e il petto. Giacevo volto a terra sul caldo terreno roccioso, infastidito da sassolini e piccole pietre appuntite.

L’unico suono che udii fu il sibilo di Giunone. Nessuna voce, nemmeno quella di Anya. Sondai con la mente lo spazio intorno a me. Anya era vicina, ne potevo avvertire la presenza. E anche quella di una mezza dozzina di menti gelide come cadaveri rinchiusi nel ghiaccio.

— Lasciate che gli dia un’occhiata — sentii Anya implorare. — Potrebbe essere morto, o ferito gravemente.

Nessuna risposta. Non un suono. In lontananza udivo il sibilare del vento, non più le grida e i fischi dei dinosauri. La battaglia era terminata.

Non potevo apprendere altro con gli occhi chiusi, così li aprii e mi spostai di lato.

Anya era in ginocchio, le braccia dietro la schiena legate da viticci. Giunone giaceva ventre a terra, col muso poggiato fra le zampe anteriori, come un pupazzo.

Sei rettili dalle scaglie rosse mi fissavano senza batter ciglio, la coda sollevata all’altezza delle ginocchia. Il loro inguine era leggermente increspato, ma per il resto privo di tratti caratteristici; come per gran parte dei rettili, anche i loro organi sessuali erano nascosti.

Non pronunciarono una sola parola. Dubito che potessero produrre alcun suono articolato, anche volendolo. Né proiettavano alcuna immagine mentale. O erano incapaci di comunicare con noi oppure si rifiutavano di farlo. Ma ovviamente erano in grado di comunicare fra loro, e possedevano la capacità di controllare i tirannosauri.

Due di loro mi fecero mettere in piedi senza tante cerimonie. Per un istante rimasi in preda alle vertigini, ma subito regolai il livello della pressione sanguigna, e quella sensazione scomparve. Un altro umanoide afferrò Anya per i capelli e la fece alzare in piedi. Riuscii a liberarmi dalla stretta dei due individui al mio fianco e sferrai un calcio da karateka contro quel demonio coperto di squame, subito sotto il mento aguzzo. La sua testa si piegò all’indietro con tanta violenza che potei udire un rumore di vertebre rotte. Il rettile cadde all’indietro e rimase disteso a terra, immobile.

Mi voltai per affrontare gli altri, le mani ancora strettamente assicurate dietro la schiena. Anya era in piedi, pallida e scura in volto, con Giunone tremante ai suoi piedi.

Uno degli umanoidi si chinò sul corpo del compagno e lo esaminò sommariamente. Quindi si voltò a guardarmi. Non avevo modo di leggere cosa gli passasse per la mente dietro quel volto privo d’espressione. I suoi occhi rossi mi fissarono per un lungo momento, quindi il rettile si rimise in piedi e indicò in direzione del lago.

C’incamminammo. Due rettili si portarono in testa davanti a noi, gli altri tre ci seguirono da dietro. Nessuno di loro osò più toccare uno di noi.

— Come comunicano fra loro? — Anya domandò a voce alta.

— Mediante qualche forma di telepatia, ovviamente — risposi. — Pensi che riescano a capire quel che diciamo?

Anya cercò di scrollare le spalle nonostante i legacci. — Non sono nemmeno certa che possano udire. Non credo che i loro sensi funzionino secondo gli stessi parametri dei nostri.

— Rispetto a noi hanno una maggiore capacità visiva oltre la soglia dell’infrarosso — ricordai da quel poco che avevo notato all’interno della fortezza neolitica di Set.

— Alcuni rettili non dispongono nemmeno di un apparato uditivo.

Mi voltai leggermente a guardare i tre che avanzavano dietro di noi. — Ho l’impressione che ci comprendano con sufficiente chiarezza. Sembra che abbiano afferrato pienamente l’idea che li avrei combattuti se ti avessero fatto del male.

— L’hai dimostrato abbastanza chiaramente!

— Sì, lo so, ma la cosa più importante è che hanno compreso che non li avrei combattuti se ti avessero lasciata in pace.

Avanzammo in silenzio per un po’. Quindi domandai: — Cos’è accaduto nella gola, dopo che mi hanno attaccato?

— Gran parte dei dinosauri ancora in vita sono riusciti a fuggire — disse Anya, contorcendo le labbra in un sorriso agrodolce. — Gli umanoidi sono stati costretti ad abbandonare il loro controllo sui tirannosauri per occuparsi di te…

Sentii il mio volto avvampare di vergogna. — Mentre io ero facile preda per loro, concentrato com’ero a controllare il mio.

— Ma tutti gli altri hanno smesso di attaccare nello stesso istante in cui sono stati lasciati soli con i propri istinti.

Pensai all’eccitazione che avevo provato durante il controllo del tirannosauro. Non si era trattato del semplice controllo della bestia da qualche luogo remoto; ero stato il tirannosauro, potente, terribile, inebriato della mia stessa forza e della brama di sangue. La seduzione dei sensi era stata irresistibile. Se mai avessi dovuto riprendere il controllo di un simile mostro, avrei dovuto prestare più attenzione: era troppo facile tramutarsi in esso e dimenticare tutto il resto.

Gli umanoidi ci guidarono lungo lo stesso percorso dell’andata fino al calar della notte, quando il mondo fu immerso nell’oscurità. Nuvole scure si erano radunate per tutto il pomeriggio e la sera; le stelle erano nascoste alla vista. Il vento soffiava gelido, e in esso fiutai l’incombere della pioggia.

Ci arrestammo nei pressi di un rilievo fra due stagni poco profondi. I rettili ci aiutarono a sedere ma non allentarono minimamente i nostri legami. Poi si disposero a semicerchio intorno a noi. Giunone, che per tutto il giorno aveva continuato a masticare tutte le foglie che le fossero capitate a tiro, si acciambellò fra me e Anya e cadde immediatamente in un sonno profondo.

— Abbiamo fame — dissi agli umanoidi che sedevano inespressivi al nostro fianco.

— E freddo — disse Anya.

Nessuno di essi ebbe la benché minima reazione. Loro non avevano fame, questo era evidente. Non potevamo sapere per quanto tempo fossero in grado di resistere senza mangiare. O non avevano mai notato che noi mammiferi dobbiamo mangiare con maggior frequenza o, più probabilmente, non se ne curavano affatto. Oppure, con probabilità ancora maggiore, avevano capito che la fame ci rendeva deboli, riducendo le probabilità di una nostra eventuale fuga.

Smise di piovere subito prima dell’alba. Ci rimettemmo in cammino con difficoltà attraverso il terreno coperto di fango, scivolando e cadendo di continuo senza poterci aiutare con le mani che avevamo ancora legate dietro la schiena. Ogni volta i rettili ci aiutavano a rimetterci in piedi. Due di loro rimasero indietro, pronti ad aiutare Anya, mentre gli altri tre procedevano al mio fianco.

La pioggia scese a intermittenza per tutta la durata del nostro cammino verso il castello. Giungemmo finalmente a destinazione sotto i caldi raggi del sole pomeridiano. Le mura massicce della fortezza e le sue torri slanciate brillavano dei colori dell’arcobaleno sotto i suoi raggi. Alta nel cielo, così luminosa da essere perfettamente visibile anche alla luce del sole, la stella brillava rossa sopra di noi.

21

Ci guidarono su per la stretta rampa di scale verso l’unica porta che si apriva fra le alte mura del castello. L’ingresso era ampio appena quel poco che bastava a permettere a due di quei rettili di varcarlo fianco a fianco, ma era alto almeno sette metri. Spuntoni aguzzi sporgevano dai lati del portale e sulla sua volta ad arco, simili a denti di metallo scintillante.

Nell’immergerci fra le ombre del castello avvertii il ronzio vibrante di potenti macchinari. L’aria fra le mura della fortezza era ancora più calda di quella umida fuori di esse: un calore intenso che mi avvolse come una marea soffocante, stimolando la traspirazione di tutti i pori sulla mia pelle, prosciugandomi del tutto le forze.