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Il quintetto dei nostri catturatori ci affidò alle attenzioni di altri quattro rettili decisamente più grossi ma del tutto identici a loro. Erano così simili l’uno all’altro da dare l’impressione di essere stati clonati da una stessa cellula originaria.

I nuovi guardiani ci liberarono dai legacci, e per la prima volta da giorni interi fummo nuovamente in grado di muovere le braccia e le dita in preda ai crampi. Un normale essere umano avrebbe potuto uscirne paralizzato, con le braccia atrofizzate e le mani incancrenite per la mancanza di flusso sanguigno. Io ero riuscito a spingere il sangue oltre il punto in cui le funi si serravano strette contro le mie carni, dirigendole verso le arterie più profonde, e Anya aveva fatto lo stesso. Ma anche così, passò molto tempo prima che i segni dei legami scomparissero dalle nostre carni.

La prima cosa che Anya fece dopo aver flesso le dita insensibili fu carezzare la testa di Giunone, che sibilò di piacere per l’attenzione. Fui sul punto di provare un pizzico di gelosia.

Ci rinchiusero in una cella grande come un dormitorio, tutti e tre. Era completamente spoglia, senza un solo filo di paglia a coprire il duro terreno. L’intero castello sembrava costruito di materiale plastico, lo stesso di cui era composta la fortezza di Set nel Neolitico.

Le pareti sembravano perfettamente lisce, ma ugualmente un pannello scivolò su se stesso e da esso uscì un vassoio colmo di cibo: carne allo spiedo fumante, verdura cotta, un paio di bottiglie d’acqua e persino un mucchietto di foglie per Giunone.

Mangiammo avidamente, anche se non riuscivo a togliermi dalla mente l’idea che stessimo consumando l’ultimo pasto concesso al condannato.

— Cosa facciamo adesso? — chiesi ad Anya, pulendomi il mento col dorso della mano.

Anya si guardò intorno. — Senti anche tu queste vibrazioni d’energia?

Annuii. — Set deve rifornire d’energia l’intero apparato mediante il pozzo nucleare.

— Dobbiamo trovarlo — disse Anya. — E distruggerlo.

— Più facile a dirsi che a farsi.

Mi guardò coi suoi occhi grigi e solenni. — Dobbiamo riuscirci, Orion. L’esistenza del genere umano e l’intero continuum dipendono da ciò.

— Allora il primo passo da fare — dissi, tirando un sospiro di rassegnazione — è uscire da questa cella. Qualche suggerimento?

Come in risposta alla mia domanda la porta di metallo si aprì, e dietro di essa apparvero altre due guardie. O forse erano due dei quattro che ci avevano condotti in cella, non c’era modo di capirlo.

Ci pungolarono con le loro dita artigliate esortandoci a uscire nel corridoio, mentre Giunone ci seguiva a balzi, circospetta.

Il corridoio era caldo e immerso nell’oscurità: le lampade alte sopra di noi irradiavano una luce rossastra così intensa da farmi concludere che gran parte della loro luce doveva essere infrarossa, quindi invisibile ai miei occhi ma apparentemente chiara e brillante per quei rettili. Chiusi gli occhi e cercai di mettermi in contatto con la mente di Giunone. E, in effetti, dal punto di vista del becco-d’anatra, il corridoio era perfettamente illuminato e la temperatura confortevole.

Il corridoio piegò verso il basso, lentamente ma risolutamente. Mentre avanzavo osservando la scena attraverso gli occhi di Giunone, mi resi conto che le pareti non erano affatto spoglie. Erano decorate da vivaci mosaici raffiguranti scene in cui aggraziati rettili umanoidi erano ritratti in splendidi parchi e radure, in giardini coltivati con armonia, in riva al mare o sulla cima di qualche montagna.

Analizzai quelle opere d’arte. In ogni scena non era presente più di un umanoide, sebbene su molte di esse si scorgessero altri rettili, per lo più quadrupedi. Nessuno fra gli umanoidi indossava un qualunque tipo di abito né reggeva mai nulla dall’apparenza di un’arma o uno strumento. Nemmeno una cintura o una tasca di qualsiasi sorta.

Poi, con un brivido che mi percorse la schiena, notai che in ogni immagine era raffigurato un sole rosso brillante, così grande da nascondere alla vista un buon quarto del cielo. In alcune scene appariva addirittura un secondo sole, giallo, minuscolo e lontano.

Erano scene di un mondo che non era la Terra. La stella rossa in esse rappresentata era la scura stella cremisi che avevo osservato una notte dopo l’altra, quella sinistra stella rosso-sangue così luminosa da poter essere scorta persino alla luce del giorno, che brillava sulla verticale del castello anche in quello stesso momento.

Feci per rivelare ad Anya ciò che avevo scoperto, ma i nostri guardiani si arrestarono di fronte a una porta di legno intagliato così ampia che una dozzina di uomini avrebbero potuto attraversarne la soglia l’uno di fianco all’altro. Mi sporsi per toccarla. Sembrava di legno scuro, simile a ebano, ma al tatto aveva la consistenza della plastica. Ed era fredda, un fenomeno piuttosto singolare in un ambiente tanto surriscaldato.

La porta si divise e si aprì in silenzio. Anya e io attraversammo la soglia senza attendere che ci incalzassero a farlo e ci ritrovammo in una camera immensa dalla volta estremamente alta sopra le nostre teste. Giunone ci seguì trotterellando.

Tornato in possesso dei miei sensi, riuscii a distinguere appena il soffitto arcuato della stanza. La luce era fioca, l’aria oppressivamente calda, come di fronte a un forno aperto in un pomeriggio di mezz’estate.

Set era disteso su un divano privo di schienale, posto su una piattaforma sollevata dal pavimento. Questa volta non c’erano statue raffiguranti la sua persona, né schiavi umani ad adorarlo. Alcune file di torce erano allineate sui lati del trono; le loro fiamme erano avvolte dall’oscurità, come se diffondessero la tenebra piuttosto che la luce.

Avanzammo lentamente verso il trono nero come la notte e la figura demoniaca che vi sedeva sopra. Il volto di Anya era scuro, le labbra serrate in una sottile linea esangue. I segni delle corde che l’avevano legata erano purpurei per la rabbia in contrasto con la sua pelle d’alabastro.

Di nuovo percepii furore e odio implacabile riversarsi da Set come lava fusa dalla bocca di un vulcano. E di nuovo in risposta a essi sentii la furia e l’odio impadronirsi del mio animo, bruciare dentro di me, crescere a mano a mano che ci avvicinavamo al suo trono. Lassù sedeva il demonio incarnato, l’eterno nemico, e il mio unico scopo era quello di spodestarlo e finirlo con le mie mani.

Di nuovo sentii Set prendere il controllo del mio corpo, obbligarmi ad arrestarmi a pochi passi dal suo scanno, paralizzare i miei arti in modo che non potessi saltargli addosso per strappargli il cuore dal petto.

Anya era al mio fianco, rigida quanto me. Anche lei sembrava subire l’abbraccio mentale di Set, e lottava per liberarsene. Forse, se avessimo unito le nostre forze, avremmo potuto sopraffare i suoi poteri demoniaci. Se solo avessi potuto farlo distrarre in qualche modo… Anche un semplice istante poteva essere sufficiente.

— Siete più intraprendenti di quanto non pensassi — la sua voce ribollì nella mia mente.

— E meglio informati — risposi, con astio.

I suoi occhi rossi e simili a fessure brillarono verso di me. — Meglio informati? E come?

— So che non sei nativo della Terra. Vieni dal mondo orbitante intorno alla stella rossa; il mondo che Kraal chiamava il Punitore.

Il mento appuntito del rettile si abbassò di qualche centimetro verso il suo petto coperto di scaglie. Poteva essere un cenno d’assenso, ma anche solo un movimento compiuto inconsciamente mentre ponderava sulle mie parole.

— La stella si chiama Sheol — rispose, mentalmente. — E il mio mondo d’origine è il suo unico pianeta, Shaydan.

— Nel tempo dal quale provengo — dissi — c’è un unico sole visibile nel cielo, e la tua stella non esiste.