Set ne traeva piacere. Si diresse verso la cupola di plastica e guardò in basso nelle profondità del pozzo, mentre la luce di quell’energia proiettava lampi rossastri sulle sporgenze ossee e sulla mascella del suo volto coperto di squame. Compiaciuto come un bagnante disteso al sole, Set distese le possenti braccia intorno alla cupola in una sorta d’abbraccio, assorbendo il calore che filtrava da essa.
Io ne rimasi ben lontano. Faceva troppo caldo per i miei gusti. Nonostante gli sforzi compiuti per controllare la temperatura del mio corpo, dovetti comunque permettere alle mie ghiandole sudorifere di fare il loro lavoro, e nel giro di qualche secondo fui immerso in un bagno di sudore dalla testa ai piedi.
Dopo alcuni istanti Set tornò verso di me e accennò in direzione di una bassa piattaforma posta sul lato opposto della camera. La sua base era fiancheggiata da una serie di neri oggetti tubolari simili a riflettori o proiettori. In corrispondenza della piattaforma il basso soffitto era coperto di strumenti analoghi.
Senza dire una parola, salimmo sulla piattaforma. Set era dietro di me, leggermente spostato di lato. Posò una mano artigliata sulla mia spalla; un chiaro segno di possesso per qualsiasi specie disponga di mani. Strinsi i denti, ben conscio di non potergli nuocere in nessun modo, né fisicamente né mentalmente. Non da solo. Un essere umano privo di strumenti non è un nobile selvaggio, pensai; è solo una patetica scimmia senza peli, sempre vicina alla morte.
A metà altezza dal soffitto potevo vedere le nostre immagini riflesse sulla cupola di plastica che copriva il pozzo nucleare. Grottescamente distorto sulla sua superficie curva, il mio volto contratto sembrava pallido e indifeso in confronto alle possenti spalle e alla testa da rettile priva d’espressione che si ergevano dietro di me. E ai suoi artigli chiusi intorno alla mia spalla.
Improvvisamente cominciammo a cadere, piombando nell’oscurità più totale come se il mondo fosse scomparso sotto i nostri piedi. Avvertii un pungente gelo criogenico mentre fluttuavo nel nulla, privo di corpo e tuttavia tremante, in preda al terrore.
— Perdonami.
La voce di Anya raggiunse la mia coscienza. Un debole grido supplichevole, quasi un singhiozzo. Soltanto quello. Una sola parola. Da qualche luogo fra gli interstizi dello spaziotempo, dalle profondità del tessuto quantizzato del continuum, era riuscita a raggiungermi con quello straziante, fugace messaggio.
O era la mia immaginazione? Il mio stesso ego che si autocommiserava, rifiutando di credere che Anya potesse abbandonarmi di sua spontanea volontà? Perdonarla? Non erano parole degne di una dea, riflettei. Doveva essere un messaggio generato dalle mie stesse emozioni, dal mio inconscio che cercava di costruire una fortezza intorno al dolore e alla pena che provavo, un castello da erigere nella desolazione del mio cuore.
Il freddo e l’oscurità cessarono d’improvviso. Il mio corpo riprese forma e dimensione. Di nuovo i miei piedi erano saldamente piantati sul terreno e gli artigli di Set erano stretti sulla mia spalla sinistra.
Eravamo sul pianeta Shaydan.
Ero immerso nell’oscurità. Il cielo era scuro, coperto di nuvole basse dal funereo colore grigio brunito. Spirava un vento caldo che sferzava la mia pelle con minuscole particelle di polvere sospese nell’aria. Cercando di vincerne la violenza, abbassai lo sguardo verso i miei piedi. Eravamo su una piattaforma, ma oltre l’orlo la terra era sabbiosa e coperta di sassolini. Un cespuglio contorto si agitava nel vento. Un mucchietto d’erba essiccato rotolava veloce sul terreno.
Faceva caldo; un calore secco, simile a quello di una fornace. Potevo sentirlo penetrare dentro di me, prosciugare tutte le mie forze, strinare i peli delle mie braccia e delle mie gambe scoperte. Mi sentivo indolente e pesante, come se una grossa catena invisibile mi spingesse verso il terreno. La gravità era più forte di quella terrestre, compresi. Nessuna meraviglia che i muscoli di Set fossero così possenti.
Non riuscivo a vedere a più di qualche metro di distanza. L’aria stessa era satura di una nebbia giallognola formata dalla polvere portata dal vento. Respiravo con difficoltà, come se i polmoni si riempissero dei bollenti fumi sulfurei di qualche fornace. Mi domandai per quanto tempo potessi sopravvivere in quell’atmosfera.
— Abbastanza per servire al mio scopo — rispose Set al mio pensiero.
Cercai di parlare ma l’aria, pesante, si rapprese nella mia gola e cominciai a tossire.
— Trovi Shaydan poco piacevole, scimmia parlante? — Da Set emanava un divertito compiacimento. — Forse la penseresti diversamente se potessi ammirarla attraverso i miei occhi.
Battei le palpebre appesantite dalle lacrime e, improvvisamente, vidi quel mondo attraverso gli occhi di Set. Mi aveva permesso di entrare nella sua mente. Permesso? Mi aveva obbligato a farlo, impadronendosi della mia coscienza con la stessa facilità con cui avrebbe potuto cogliere un frutto da un albero. Aveva preso per sé la mia mente.
E vidi Shaydan come la vedeva lui.
I mosaici che avevo scorto nel castello presero la giusta collocazione nei miei pensieri. Attraverso gli occhi di quel rettile nato e cresciuto in quell’ambiente, mi ritrovai nel mezzo di una scena davvero idilliaca.
Quelle che per me erano nebbia e polvere, agli occhi di Set erano perfettamente invisibili. Eravamo sulla sommità di un piccolo poggio che si affacciava su un’ampia vallata. All’orizzonte si stendeva una città con edifici bassi e del colore del terreno, in diversi toni di verde e marrone. Verso la collinetta su cui eravamo si snodava una strada fiancheggiata da alberi bassi, così piccoli da farmi chiedere se fossero veramente alberi e non piuttosto grossi cespugli.
Quello che mi era sembrato un vento sferzante carico di particelle di polvere abrasive era adesso una brezza gentile. Sapevo che la mia pelle veniva corrosa da quel pulviscolo, ma per Set esso non era che il caldo abbraccio del suo pianeta natale.
Notai che la piattaforma sulla quale eravamo in piedi era del tutto simile a quella posta nel castello di Set sulla Terra. Forse si trattava proprio della stessa; forse era stata traslata insieme a noi attraverso lo spaziotempo. Gli stessi proiettori tubolari erano allineati lungo ogni suo lato, a eccezione del punto in cui alcuni scalini permettevano l’ascesa o la discesa.
Sollevato lo sguardo, vidi altri proiettori montati su alti tralicci posti a intervalli regolari intorno alla piattaforma.
Più in alto ancora era Sheol, così vicina da coprire un quarto abbondante del cielo, così immensa da incombere su di me come un’enorme cupola pronta a spremere l’aria dai miei polmoni doloranti.
La stella era così vicina che potevo scorgere vortici di gas incandescenti ribollire sulla sua superficie, ognuno di essi più vasto di un intero pianeta. Chiazze scure si contorcevano lungo la superficie, come brillanti tentacoli di fiamma. Il colore del corpo celeste era così profondamente rosso da sembrar quasi proiettare tenebra invece che luce. Sembrava pulsare come per inspirare ed espirare irregolarmente, rantolando con vibrazioni tremende che scuotevano l’intera sua massa.
Era una stella morente. E di conseguenza anche il pianeta Shaydan era condannato.
— Basta così.
Con quelle parole Set mi spinse fuori dalla sua mente. Tornai a essere semiaccecato, indifeso sotto la sferza del vento cocente; solo nel mondo dei miei nemici.
Ma Set non aveva interrotto il legame mentale fra noi con tanta velocità da farmi abbandonare la sua mente a mani vuote. Mentre osservavo la superficie di Sheol attraverso i suoi occhi, avevo appreso tutto ciò che egli sapeva della stella e degli altri pianeti che formavano il nostro sistema solare.
Il Sole era nato insieme a questa sua compagna, formando con essa un sistema binario. Mentre il Sole era una stella gialla e brillante, con eoni di vita davanti a sé, la sua più piccola compagna era una nana rossa, dotata di una massa appena sufficiente a mantenere attiva la sua fusione interna, instabile e condannata all’estinzione.