Talvolta le nostre udienze duravano appena qualche minuto. Ma il più delle volte Set rimaneva di fronte alla piattaforma del patriarca per ore intere, in silenziosa conversazione, senza quasi muovere un muscolo o contorcere la coda. Sapevo che mi portava come prova del fatto che la gente di Shaydan poteva emigrare senza rischio sulla Terra. Ma non riuscivo a capire quanto successo la sua idea stesse riscuotendo. Le visite brevi sottintendevano un accordo veloce o un rifiuto netto? E le lunghe ore di discorsi silenziosi indicavano che Set e i suoi ospiti litigavano animatamente o che erano intenti a discutere ogni dettaglio del piano per la colonizzazione della Terra?
A poco a poco, mentre ci spostavamo attraverso la vasta, arida superficie di Shaydan e grazie alle occasionali brevi occhiate nella mente dei seguaci di Set, cominciai a farmi una prima idea su quel popolo e sulla sua civiltà.
Nonostante la stanchezza fisica, la mia mente era ancora ben attiva. In effetti, non avevo molto da fare se non cercare di analizzare tutto ciò che potevo sul mio nemico e il suo mondo. La cosa mi aiutava a dimenticare la fame di cui soffrivo costantemente e il dolore di quel vento sferzante. Il mio corpo era costretto dal controllo di Set, ma non la mia mente. Analizzavo tutto ciò che mi era possibile. Osservavo e studiavo. Imparavo.
Il punto di partenza della mia analisi, naturalmente, era il fatto che si trattava di rettili. O meglio, l’equivalente shaydiano dei rettili terrestri. Non controllavano attivamente la loro temperatura corporea come fanno i mammiferi, sebbene mantenessero il loro calore interno con adeguata efficienza.
Si riproducevano deponendo uova. Come i rettili terrestri, praticamente tutte le specie che vivevano su Shaydan abbandonavano il nido non appena deposte le uova, senza mai fare ritorno alla loro prole.
Ciò che nasceva da quelle uova erano versioni in miniatura dei rettili adulti, già dotati di zanne e artigli nonché di tutti gli istinti dei loro genitori. I piccoli possedevano tutti gli attributi dei loro genitori, a eccezione della taglia. Diventando adulti crescevano di dimensione, e più l’individuo era anziano più diventava grande e più il colore delle sue squame si faceva intenso. Le sole limitazioni alla grandezza di uno shaydiano erano i limiti fisici entro i quali le ossa e i muscoli erano in grado di sopportare il peso sempre maggiore del suo corpo.
Ciò significava che Set e gli altri patriarchi che avevamo incontrato in ogni città dovevano essere considerevolmente più vecchi degli altri intorno a loro. Che età aveva Set? Secoli, quantomeno. Forse millenni.
I neonati shaydiani ereditavano tutte le caratteristiche fisiche dei loro genitori, incluse non soltanto la struttura del cervello, ma anche l’abilità di comunicare telepaticamente. Molti eoni prima, quell’abilità doveva essere sorta in seguito a qualche mutazione genetica, tramandata alle generazioni successive. Gli individui telepatici erano vissuti più a lungo, generando molte più uova dalle quali erano nati altri individui dotati di tale dono. Col passare delle generazioni i telepatici avevano spinto all’estinzione i loro simili meno fortunati. Forse attraverso atti di violenza, come un tempo avevano fatto i Creatori coi neanderthaliani.
La comunicazione telepatica era la chiave dell’intelligenza. Nel deporre le uova, una madre shaydiana imprimeva nella mente ancora informe della sua progenie tutte le esperienze della sua vita. Ogni generazione di rettili telepatici impartiva così a quella successiva tutta la conoscenza di tutte le generazioni precedenti. Disponendo dell’esperienza dei suoi progenitori, un piccolo rettile era sufficientemente equipaggiato, sia mentalmente sia fisicamente, per affrontare il mondo esterno.
La civiltà che quella razza di rettili intelligenti aveva costruito su Shaydan esisteva da parecchi milioni di anni terrestri. Ogni comunità era guidata dal membro più anziano. L’età media degli individui era di qualche migliaio di anni. A creature in grado di leggere la mente altrui, la sfiducia era ignota. Eventuali discordie fra individui venivano giudicate dal patriarca… e in effetti, quella sembrava essere l’unica motivazione della sua carica.
Ogni comunità lavorava con l’efficienza instancabile e modesta di un formicaio o di un alveare. Non esistevano guerre, poiché ogni comunità viveva entro i limiti del proprio ambiente. I figli di Shaydan erano vissuti in perfetta armonia.
Fino a quando avevano compreso che Sheol, la loro stella, un giorno avrebbe distrutto il pianeta su cui vivevano.
I patriarchi si erano consultati a vicenda su come affrontare quella terribile certezza. Molti di loro avevano concluso che la fine era inevitabile, e che l’unica decisione possibile era quella di accettare il proprio destino. Alcuni erano giunti persino a raccomandare il suicidio, affermando che era meglio morire con dignità, per scelta spontanea, piuttosto che attendere il cataclisma che li avrebbe spazzati via tutti.
Ma l’istinto di sopravvivenza era radicato profondamente in loro. Cominciarono così a espandersi verso il sottosuolo, a estendere le loro città e le loro dimore nel sottosuolo, nella speranza che la massa del loro pianeta potesse proteggerli dalle radiazioni che un giorno Sheol avrebbe scaraventato contro la superficie. Ma se anche così fosse avvenuto, sapevano che quello sarebbe stato soltanto il primo stadio dell’agonia della stella. Alla fine essa sarebbe esplosa, distruggendo con sé il loro mondo.
Fra tutti i patriarchi di Shaydan, soltanto Set si era opposto al clima generale di passività e accettazione. Soltanto lui aveva cercato un modo in cui evitare il fato che attendeva la sua gente, la sua intera razza. Gli altri patriarchi dapprima lo avevano giudicato pazzo o estremamente sciocco per la sua decisione di spendere gli ultimi secoli della propria vita nel tentativo di sfuggire all’inevitabile. Ma Set non se n’era curato.
Adesso, più di un secolo dopo i suoi primi studi, mi portava in visione presso i patriarchi come prova del fatto che avrebbero potuto migrare in massa sulla Terra e intraprendere una nuova vita sotto il calore del sole giallo.
Non avevo modo per calcolare quanto tempo impiegassimo per viaggiare da una città all’altra. Non c’era modo di contare i giorni, e su Shaydan non sembravano esistere stagioni. Ogni volta che mi veniva permesso di sbirciare nella mente di uno dei rettili, cercavo di afferrarne qualche pur minimo cenno, ma non mi riusciva mai di comprendere come misurassero il passare del tempo.
Compresi che la comunicazione telepatica degli Shaydiani doveva avere un raggio limitato; altrimenti, perché Set avrebbe intrapreso un viaggio così lungo e disagevole? Avrebbe potuto rimanere comodamente nella propria città e conversare con gli altri patriarchi attraverso i propri poteri telepatici. Oppure, se trovava necessario esibirmi fisicamente di fronte a ognuno di essi, ciò poteva significare che la comunicazione telepatica non era in grado di svolgere una simile funzione. Dovevano vedermi di persona.
Comunque fosse, ciò significava che vi erano dei limiti persino ai formidabili poteri mentali di Set. Conservai quella speranza per eventuali usi futuri; c’erano così poche altre speranze a cui potessi aggrapparmi…
Di tanto in tanto, durante i nostri viaggi, mi sembrava di sentire il terreno tremare. Più di una volta udii l’eco di un rombo simile al brontolio di un tuono lontano. Né Set né alcuno del suo seguito sembrarono accorgersene mai, sebbene ogni volta le nostre cavalcature si fermassero per un istante ad annusare l’aria, spaventate.
Durante una delle nostre udienze, il terreno tremò di nuovo. Il pavimento di pietra si sollevò sotto i miei piedi, facendomi cadere in ginocchio. Una fessura si aprì a zigzag nel muro dietro la piattaforma del patriarca. Il rettile serrò la stretta sui braccioli della sua sedia, sibilando in un tono che non avevo mai udito prima. Persino lo stesso Set barcollò leggermente e, guardatomi intorno, vidi che i convenuti si erano stretti l’uno all’altro con aria impaurita.