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Compresi di osservare la dimora dei Creatori attraverso la mente cinica di Set. Era dentro di me, come il mio sangue e la mia mente. Era stato lui a impedirmi di mettere in guardia Ermes.

L’aria sembrò riempirsi nuovamente di luce, e io chiusi gli occhi.

— Orion.

Quando li riaprii vidi Ermes insieme ad altri due Creatori: quello che chiamavo Zeus e una snella ragazza bionda, così bella da togliere il fiato, che poteva solo essere Afrodite. Tutti e tre erano fisicamente perfetti, ognuno a suo modo. Gli uomini indossavano uno scintillante abito di tessuto metallico che aderiva alle loro figure come una seconda pelle, dalla punta degli stivali perfettamente lucidi al girocollo privo della benché minima piega. Afrodite indossava un abito leggermente pieghettato color rosa albicocca, legato alla vita da una cinta dorata. Aveva braccia e gambe scoperte, e la loro pelle era perfetta, quasi radiosa.

— Anya dovrebbe essere già qui — disse.

— Sta arrivando — rispose Zeus.

No! avrei voluto gridare. Ma non potevo farlo.

— Anche il Radioso sta venendo qui — disse Ermes.

Zeus annuì solennemente.

— È ridotto molto male — disse Afrodite. — Guardate com’è emaciato! E la sua pelle sembra bruciata.

Rimasero a guardarmi con aria pensosa. Nessuno di loro mi toccò. Non mi aiutarono a mettermi in piedi, né mi offrirono del cibo, o una brocca d’acqua.

Una sfera di luce dorata apparve di fianco a essi, così luminosa che persino gli stessi Creatori fecero un leggero sobbalzo e si coprirono gli occhi con le mani. La sfera fluttuò al di sopra del terreno nebbioso per un momento, scintillò, pulsò, quindi si contrasse e assunse forma umana.

Il Radioso. Lo avevo servito sotto il nome di Ormazd, il dio della luce, durante la lotta contro Ahriman e i neanderthaliani. Lo avevo combattuto sotto il nome di Apollo, il campione dell’antica Troia.

Era il mio Creatore. Lui mi aveva generato e, attraverso me, aveva generato l’intera razza umana. E il genere umano, evolvendosi durante i millenni, aveva infine prodotto quei semidei che si facevano chiamare i Creatori. Loro ci avevano creato; noi avevamo creato loro. Il ciclo era completo.

Tranne il fatto che adesso ero un’arma puntata contro di loro. Presto avrei ucciso i Creatori, dando inizio con quel gesto alla distruzione dell’intera razza umana, attraverso lo spaziotempo, attraverso tutti gli universi, cancellando la mia stessa genìa dal continuum per l’eternità.

Il mio creatore era in piedi davanti a me, altero e arrogante come sempre. Dal suo corpo sembrava irradiare una luminescenza dorata. Aveva spalle ampie, era alto e vestito con abiti di luci intermittenti, come se fosse coperto di lucciole. Il suo viso imberbe era ampio e severo, con occhi simili a quelli di un leone, e una fluente criniera di capelli dorati cadeva folta sulle sue spalle.

Lo odiavo. Lo adoravo. Lo avevo servito attraverso i secoli. Già una volta avevo cercato di ucciderlo.

— Non sei stato chiamato qui, Orion — disse con la bella voce tenorile che ricordavo, una voce che avrebbe potuto entusiasmare il pubblico di un concerto o una folla di fanatici religiosi, una voce venata di disprezzo.

— Ho bisogno… d’aiuto.

— Ovviamente. — Il tono delle sue parole era derisorio, ma nei suoi occhi lessi un’espressione ben più grave.

— Sembra ferito — disse Afrodite.

— Come ha potuto arrivare qui se non l’hai chiamato? — domandò Ermes.

Gli occhi di Zeus si chiusero a fessura. — Non gli avrai dato il potere di muoversi attraverso il continuum a suo piacimento, voglio sperare.

— Certo che no — rispose il Radioso, irritato. Voltatosi verso di me domandò, a sua volta: — Come sei giunto fin qui, Orion? Da dove vieni?

In quell’istante mi sentii ardere dal desiderio di obbedirgli. Grazie a istinti che lui stesso aveva posto dentro di me, non desideravo far altro che dirgli tutto ciò che sapevo. Set. La sua gente nel Cretaceo. Pronunciai le parole nella mia mente, ma la lingua si rifiutava di formularle. Il potere mentale che Set esercitava su di me era troppo forte. Rimasi a fissare i Creatori come un bue istupidito, come un cane che implorava il suo padrone di mostrargli un po’ d’affetto anche se non era riuscito a eseguire i suoi ordini.

— Decisamente c’è qualcosa che non va — disse Zeus.

Il Radioso annuì. — Vieni con me, Orion.

Cercai di obbedirgli, ma non riuscivo a mettermi in piedi. Mi dibattevo su quel ridicolo pavimento coperto di nubi come un bimbo troppo debole per reggersi in piedi.

— Be’, aiutatelo, no? — disse Afrodite, senza muovere un solo passo verso di me.

Il Radioso sbuffò con disprezzo. — Sei proprio malconcio, mio Cacciatore. Pensavo di averti creato un po’ più resistente.

Fece un leggero movimento con la mano, e mi sentii sollevare da mani invisibili che mi ressero a mezz’aria in posizione leggermente inclinata.

— Seguimi — disse il Radioso, voltandomi le spalle. Gli altri tre Creatori scomparvero come candele spente da un improvviso soffio di vento.

Rimasi a fluttuare nell’aria, indifeso come un bambino, di fronte al mantello scintillante di luci del Radioso. Il Creatore cominciò a camminare, anche se a me sembrava che non si fosse mosso; tutto intorno a noi sembrò sfocarsi, mutare. Non avvertii alcuna sensazione di movimento.

Discendemmo l’area coperta dalle nuvole come se scendessimo il versante di una montagna. Ma ancora non mi sembrava di muovermi veramente. Ero semplicemente seduto su un divano invisibile, osservando il mondo che scorreva davanti a me. Percorremmo un lungo sentiero e procedemmo sul tappeto erboso di un’ampia vallata. Una fila di alberi rigogliosi fiancheggiava il tortuoso corso di un fiume. Le sue acque brillavano sotto la luce del sole, alto nel cielo azzurro. Alcuni ammassi di cumuli fluttuavano serenamente nell’aria, proiettando ombre che screziavano di scuro la tranquilla vallata accesa di verde.

Cercai in quel pacifico cielo azzurro un punto di luce rosso come il colore del sangue rappreso. Sheol. Non riuscivo a trovarlo. Forse in quell’epoca non esisteva? O si trovava semplicemente sotto l’orizzonte?

Vidi una cupola dorata in lontananza, e nell’avvicinarmi a essa notai che era diafana, trasparente come un sottile velo d’oro. Sotto la sua magnifica, elegante curvatura si stendeva una città quale non avevo mai visto prima. Una serie di guglie alte e snelle che si protendevano verso il cielo; magnifici templi formati da colonne; erti ziggurat con stanze scavate nei fianchi di pietra, enormi piazze fiancheggiate da arcate eleganti, ampi viali abbelliti da archi di trionfo.

Il respiro mi si strozzò in gola quando riconobbi uno di quei magnifici edifici: il Taj Mahal, immerso nel suo splendido giardino. E una statua gigantesca che doveva essere il Colosso di Rodi. Di fronte a esso la Statua della Libertà, patinata di verde. E più avanti ancora il tempio principale di Angkor Wat, che brillava sotto il sole come se fosse appena stato eretto.

Tutto vuoto. Spopolato. Disteso sul mio divano d’energia, guidato dal Radioso attraverso le strade di quella città impossibile, non riuscii a scorgere anima viva. Non un uccello, né un gatto; nemmeno un brandello di carta o una foglia alla deriva per le vie, sulle ali della brezza che spirava dolcemente.

Sul lato opposto della città si ergevano torri di vetro e metallo cromato, così alte da incombere imponenti su tutti gli altri edifici.

Il Radioso mi guidò all’interno di una di esse, attraverso un vasto atrio di marmo levigato, fino a un disco d’acciaio scintillante che cominciò a salire non appena vi fummo sopra. Salì sempre più velocemente, sibilando in direzione del tetto coperto di vetro. L’atrio era inanellato da balconate che saettavano di fronte a noi a velocità vertiginosa, finché ci fermammo quasi d’improvviso, senza un sussulto o uno scossone, senza avvertire quello sgradevole senso di decelerazione che mi ero aspettato.