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Ben Bova

Orion tra le stelle

Sì, ridi delle uniformi che proteggono il tuo sonno, più scadente di quelle uniformi, e della loro miserabile paga…
Perché è tutto un “Tommy qui” e “Tommy là” e “Piantala, idiota!” ma è un “salvatore della patria” quando i fucili cominciano a sparare…
Rudyard Kipling
Tommy

A Paul Spencer, Tommy Atkins,

e ai loro cugini

Prologo

Questa volta morire fu come trovarsi nel centro di un gorgo, nel cuore di un tornado mugghiante. L’universo girava vorticosamente, come impazzito, tempo e spazio risucchiati in un’immagine indistinta, pianeti, stelle, atomi ed elettroni ruotavano tumultuosamente in orbite e io, al centro di tutto questo, che sprofondavo, sprofondavo inesorabilmente in un gelido oblio criogenico.

Gradualmente, ogni sensazione mi abbandonò. Potevano essere passati attimi o millenni, non avevo possibilità di misurare il tempo, ma ogni sensazione di movimento e di freddo svanì dal mio corpo, quasi mi fossi trasformato in un blocco di ghiaccio, inerte e insensibile.

Eppure, la mia mente continuava a funzionare. Sapevo di essere stato traslato attraverso lo spazio-tempo, da una cuspide del continuum all’altra. Tuttavia, per quanto potevo vedere, toccare e udire, ero in un totale oblio. Per un tempo indefinito fui quasi felice di essere finalmente libero dal turbinio della vita, oltre il dolore, oltre il desiderio, oltre l’agonizzante dovere che i Creatori mi avevano imposto.

Oltre l’amore.

Questa consapevolezza mi scosse. Da qualche parte, nella vastità dello spazio-tempo, Anya stava lottando contro forze che io non potevo neanche comprendere, in pericolo nonostante i suoi poteri divini, e fronteggiava nemici che spaventavano persino il Radioso e gli altri Creatori.

Protesi la mente, cercando di penetrare l’assoluta oscurità che mi avvolgeva. Nulla. Era come se non ci fosse più universo, più continuum, né tempo, né spazio. Ma sentivo che da qualche parte, in qualche tempo, lei esisteva. Lei mi aveva amato, come io l’avevo amata. Niente, in nessun universo possibile, avrebbe potuto tenerci separati.

Un barlume di luce. Così debole e distante che, all’inizio, pensai fosse solo frutto della mia immaginazione. Ma sì, c’era davvero! Un bagliore fioco. Luce. Calore.

Se fossi io a muovermi verso di esso, oppure fosse l’inverso, per me non aveva nessuna importanza. Il bagliore si fece più distinto, più intenso fino a che mi sembrò di urtare contro di esso come un truciolo gettato in una fornace, come una meteora attratta verso una stella. La luce splendeva come il sole, ora, e io mi riparai gli occhi con l’avambraccio per lenire il dolore, felice, però, di avere occhi e braccia e di “sentire” di nuovo.

— Orion. —Dal bagliore scaturì una voce. —Sei tornato.

Era Aton, naturalmente, il Radioso. La sua presenza si materializzò sotto sembianze umane. Era un’immagine divina e potente, dalla folta chioma dorata. Il corpo era avvolto in preziose stoffe dorate, tanto abbaglianti che facevo fatica a guardarle.

Era in piedi, davanti a me, e intorno a lui un paesaggio spoglio che si estendeva all’infinito in ogni direzione. Una coltre informe di nebbia si sollevava, accarezzandoci le caviglie, una cupola di cielo su di noi, del colore del rame battuto.

— Dov’è Anya? —chiesi.

— Lontano da qui.

— Devo andare da lei. È in grave pericolo.

— Lo siamo tutti, Orion.

— Non mi importa di te o degli altri. È la sorte di Anya che mi sta a cuore.

Un sorrisetto gli curvò le labbra. —Ciò che importa a te è irrilevante, Orion. Ti ho creato per eseguire i miei ordini.

— Voglio stare con Anya.

— Impossibile. Hai altri compiti da eseguire, creatura.

Guardai fisso nei suoi occhi dorati e compresi che lui aveva il potere di mandarmi ovunque avesse voluto. Ma anch’io avevo dei poteri, poteri che stavano crescendo e rafforzandosi.

— La troverò —dissi.

Aton sorrise beffardo. Ma io sapevo che, qualunque cosa avesse fatto, ovunque mi avesse mandato, avrei cercato la donna che amavo, la dea che mi amava. E che non avrei smesso di cercare fino a quando non l’avessi trovata.

1

Ero confinato in un anonimo spazio grigio, la parete curva di un bozzolo di plastica talmente bassa su di me che se solo avessi sollevato il capo, l’avrei urtata. Giacevo sulla schiena, disorientato, e sbattevo le palpebre incollate dal sonno. Avevo le braccia serrate ai lati del corpo, perché non c’era spazio sufficiente per fare il benché minimo movimento. Sfiorai con il dorso della mano la parete curva del mio abitacolo: era calda come il sangue. Io, invece, ero gelato. Sentivo il gelo dentro, quasi fossi un cadavere.

Ricordai di essere morto, più di una volta. Ricordai di essermi assiderato in un paesaggio gelido di neve e ghiaccio, battuto da venti crudeli. Lo stordimento del freddo era stato una grazia, allora. Il mio corpo era stato dilaniato da un orso delle caverne.

Un clic meccanico mi riportò al presente. Udii un suono leggero, intermittente, ma stranamente fastidioso. Il coperchio di plastica si aprì di scatto e subito una gelida foschia bianca mi avvolse. Rabbrividii, e faticosamente cercai di alzarmi a sedere.

Puntellandomi su un gomito, sbirciai attraverso la gelida foschia. Ero in una grande stanza. Anonime pareti grigie. Soffitto basso illuminato da una fredda luce bluastra. Sul pavimento, oggetti piuttosto grandi molto simili a bare. Erano dozzine, forse un centinaio. E quel suono fastidioso, leggero eppure insistente, come un tarlo che roda la mente. Prima uno alla volta, poi con sempre maggiore frequenza, i coperchi delle capsule a forma di bara si sollevarono con un sibilo leggero, simile a una brezza leggera tra i rami ondeggianti di un bosco. Da ogni capsula si levavano volute di nebbia biancastra. Il suono intermittente cessò con l’aprirsi dell’ultima.

Uomini e donne si stavano alzando a sedere, e si stropicciavano gli occhi, flettevano le membra, si guardavano intorno. Notai che erano giovani, magri, in ottima forma fisica. Si assomigliavano al punto che avrebbero potuto essere fratelli. Sulle prime, pensai che fossero i componenti di due o tre famiglie. Erano completamente nudi, uomini e donne. Proprio come me.

All’improvviso, la sala vibrò, come colpita da una gigantesca mano, e un rombo distante, sordo, echeggiò nella coltre di nebbia. Per poco non caddi dalla capsula. Alcuni dei miei compagni gridarono. Un terremoto? Ma no, a quella prima scossa non ne seguirono altre.

Misi i piedi a terra e cercai di alzarmi, tenendomi saldamente al bordo della bara, o qualunque altra cosa fosse. Una capsula per il sonno crionico, realizzai subito dopo, senza capire come facessi a saperlo. Sì, era una capsula per il sonno crionico. La sala ne era piena. Gli uomini e le donne che erano lì dentro con me si erano appena risvegliati dalla morte.

— Chi è al comando di questo drappello?

Mi voltai in direzione di quella voce impaziente, arrogante e subito fui travolto da un profondo senso di odio e paura insieme. Vicino a me stava un rettile, una lucertola bipede coperta di scaglie verdi e grigie, simboli dipinti sul petto e sulle spalle, una rete d’equipaggiamento assicurata intorno al torace. Aveva solo un accenno di coda tra le zampe, e, ancora lontana dall’età adulta, mi arrivava appena all’altezza delle spalle.

Uno dei discendenti di Set! Sentii il cuore colmarsi di astio, ogni muscolo tendersi nell’imminenza della lotta. Ma avevo ucciso Set tanto tempo prima, in una straziante battaglia che aveva distrutto lui e la sua intera stirpe di rettili invasori. E lui aveva ucciso me. Ricordai la mia morte, nell’era in cui i dinosauri erravano sulla Terra e la stella che era la piccola compagna del Sole, non si era ancora infranta sul pianeta Giove.