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Non sono in condizioni di potermi mettere seduto, spiegò Blaine.

Oh, si, capisco, disse l’essere. Avrei dovuto pensarci. Bene, allora, avvicinati. Sei venuto per una visita, immagino.

Naturalmente, disse Blaine, avvicinandosi un poco.

Ora, da dove incomincio? chiese l’essere. Ci sono tanti posti e tanti tempi e tante creature diverse. È sempre un problema. Immagino che sia a causa di un desiderio di ordine che è naturale nella mente. Continua ad assillarmi il pensiero che, se potessi mettere tutto insieme, riuscirei ad arrivare a qualcosa di significativo. Non ti dispiacerà credo, se ti parlo delle strane creature che ho trovato verso l’orlo della galassia.

Non mi dispiace affatto, disse Blaine.

Sono abbastanza straordinarie, disse il Rosa, perché non hanno creato macchine, come la tua civiltà, ma sono diventate macchine esse stesse, in effetti…

Là, nella stanza azzurrovivo, con le stelle aliene che fiammeggiavano nel cielo, mentre il vento del deserto infuriava lontano, con una rabbia che in quella stanza giungeva soltanto come un mormorio, il Rosa parlò… non soltanto degli esseri-macchina, ma di molti altri. Delle tribù di insetti che da secoli interminabili accumulavano enormi riserve di cibo di cui non avevano bisogno, lavorando come schiavi, spinti da una cieca follia economica. O della razza che aveva fatto dell’arte la base di una bizzarra religione. Dei posti d’ascolto, creati dalle guarnigioni di un impero galattico che da molto tempo ormai era stato dimenticato da tutti, eccettuate quelle guarnigioni. Dei fantastici, complicati sistemi sessuali di un’altra razza di esseri che, di fronte alle difficoltà massicce della procreazione, non riuscivano quasi a pensare ad altro. Dei pianeti che non avevano mai conosciuto la vita e che correvano lungo le loro orbite nudi e scarni e grezzi come il giorno in cui si erano formati. E di altri pianeti che erano calderoni ribollenti di reazioni chimiche che stancavano la mente solo a pensarci: e quelle stesse reazioni chimiche davano origine ad una specie instabile ed effimera di capacità senziente che in un attimo era vita e un attimo dopo non riusciva più ad esserlo.

Tutto questo… e molto di più.

Blaine, mentre ascoltava, si rendeva conto della misura veramente fantastica dell’essere che aveva conservata il ricordo del suo inizio, e non aveva neppure un concetto della fine: una creatura dalla mente vagabonda che aveva esplorato, durante miliardi di anni, milioni di stelle e di pianeti sparsi in milioni di anni-luce, in quella galassia e in alcune delle galassie più vicine: una mente che aveva raccolto un confuso, gigantesco patrimonio di informazioni assortite, e non faceva il minimo sforzo per utilizzarle. Molto probabilmente, non aveva idea di come utilizzarle, eppure era turbata dalla vaga sensazione che quel patrimonio di conoscenze non doveva essere abbandonato ad oziare.

Era il tipo di creatura che poteva starsene ferma al sole per un tempo interminabile, a raccontare episodi eccentrici di tutto ciò che aveva veduto.

E per la razza umana, pensò Blaine, quella era una enciclopedia galattica, un atlante che comprendeva le mappe di innumerevoli anni-luce cubici. Quella era il tipo di creatura che la tribù dell’Uomo avrebbe potuto utilizzare. Quelle erano le nozioni che valeva la pena di acquisire, riservate da una entità che sembrava priva di sentimenti, a parte un certo senso di amichevolezza; una entità che, in tutti quegli anni di immobile osservazione, aveva esaurito ogni capacità di emozione, se pure l’aveva mai posseduta: che non aveva usato nulla delle conoscenze acquisite, ma che non aveva perduto egualmente il suo tempo. Perché in tutte le sue osservazioni, in tutto quel suo stare alla finestra a guardare gli altri mondi, aveva acquisito una enorme to’leranza ed una comprensione, non della sua stessa natura, non della natura umana, ma di ogni natura: una comprensione della stessa vita, di ogni essere senziente e intelligente; ed una comprensione per tutti i moventi e per tutte le morali, e per tutte le ambizioni, anche se apparivano assurdi agli occhi di altri esseri viventi.

E tutto questo, pensò Blaine con un trasalimento improvviso, era egualmente accumulato nella mente di un solo essere umano, del solo Shepherd Blaine, se mai fosse riuscito a dividere e a classificare per un uso adeguato.

Mentre ascoltava, Blaine perse il senso del tempo, perse la consapevolezza di ciò che era e di dove era e del perché era lì: ascoltava come un ragazzo ascolterebbe una stupenda avventura narrata da un vecchio marinaio venuto da terre lontane e sconosciute.

La stanza era divenuta familiare, e il Rosa era un amico, e le stelle non erano più aliene, e l’ululato lontano del vento del deserto era una ninnananna che lui aveva sempre conosciuto.

Passò molto tempo prima che si rendesse conto di ascoltare soltanto il vento: e le storie di luoghi lontani e di tempi lontani s’erano interrotte.

Si riscosse, quasi insonnolito, e il Rosa riprese a parlare.

È stata una bellissima visita. Credo che sia stata la migliore che io abbia mai ricevuto.

C’è una cosa, disse Blaine. Una domanda…

Se è per lo schermo, disse il Rosa, non hai motivo di preoccuparti. L’ho tolto. Non c’è più nulla che possa tradirti.

Non è questo, disse Blaine. È il tempo. Io… cioè, noi due… abbiamo un certo controllo del tempo. Per due volte mi ha salvato la vita.

È lì, disse il Rosa. La comprensione più semplice che esista. Ti dirò…

XVII

Blaine rimase disteso a lungo, immergendosi nella sensazione del proprio corpo, perché adesso aveva un corpo. Poteva sentire la pressione su quel corpo, il movimento dell’aria che sfiorava la pelle, l’umidità calda del sudore che gli solleticava le braccia e il viso e il petto.

Non era più nella stanza azzurra, perché là non aveva corpo; e non c’era più il suono lontano del vento del deserto. C’era, invece, un suono regolare e raschiante. E c’era un odore, un odore astringente, un odore aggressivo e antisettico che riempiva non soltanto le sue narici, ma tutto il suo corpo.

Sollevò lentamente le palpebre, per mettersi al sicuro da una possibile sorpresa, pronto a richiuderle di colpo se fosse stato necessario. Ma c’era soltanto un biancore, attorno a lui, piatto e senza rilievi. Non era altro che il biancore di un soffitto.

La sua testa era posata su di un cuscino, e c’era un lenzuolo, sotto di lui, e lui indossava una specie di indumento che faceva un pò prurito.

Mosse il capo, e vide l’altro letto, e su quel letto giaceva una mummia.

Il tempo, aveva detto l’essere su quell’altro mondo, il tempo è la cosa più semplice che esista. E aveva annunciato che glielo avrebbe detto, ma non aveva potuto dirglielo, perché lui non era rimasto lì ad ascoltare.

Era come un sogno, pensò; adesso che ci ripensava aveva la qualità irreale e distorta di un sogno. Ma non era stato un sogno. Era tornato ancora una volta nella stanza azzurra e aveva parlato con l’essere che vi abitava. L’aveva ascoltato narrare le sue storie e conservava ancora nella mente i particolari di quelle storie. I particolari non si dileguavano, come sarebbero dileguati, invece, se fosse stato un sogno.

La mummia giaceva sul letto accanto, avvolta nelle bende. In quelle bende c’erano buchi per le narici e per la bocca, ma non per gli occhi. Respirava, e nel respirare emetteva quel suono raschiante e lamentoso.

Le pareti erano bianche come il soffitto, e il pavimento era di piastrelle di ceramica, quel luogo aveva un’aria così sterilizzata che quasi urlava la sua identità.