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Si arrestò all’improvviso, allo stesso modo in cui avrebbero potuto fare le stelle. Fissò la sua immagine riflessa nello specchio dietro al bar, come se non l’avesse mai vista prima.

— Cosa succede, professore?

— Mike!

— Sì, professore?

— Mike, sei un genio.

— Io? Lei sta scherzando.

Il professor Hale gemette: — Mike, devo andare all’università a studiare la cosa. Per avere accesso alla biblioteca e al mappamondo celeste che vi si trovano. Stai facendo di me un uomo onesto, Mike. Su, impacchettami una bottiglia di questo scotch, di qualunque marca sia.

— È Tartan Plaid. Un quartino?

— Un quartino. E fai in fretta. Devo vedere un tizio a proposito d’una stella-cane.

— Parla sul serio, professore?

Il professor Hale emise un fragoroso sospiro. — La colpa è tua, Mike. Sì, la stella-cane… Sirio. Vorrei non essere mai entrato qui, Mike. La mia prima notte fuori casa dopo tanti anni, e tu me la rovini.

Prese un tassì per recarsi all’università, entrò con la sua chiave e accese la luce nel suo studio privato e nella biblioteca. Poi ingollò una robusta sorsata di Tartan Plaid e si tuffò nel lavoro.

Per prima cosa si qualificò con la capo-centralinista, e dopo una breve, energica discussione ottenne un collegamento con l’astronomo capo dell’Osservatorio Cole.

— Sono Hale, Ambruster, — disse. — Ho un’idea, ma voglio controllare i miei dati prima di cominciare a lavorarci sopra. Secondo le ultime informazioni che ho ricevuto, c’erano quattrocentosessantotto stelle che mostravano un moto proprio. La cifra è ancora questa?

— Sì, Milton. Sono all’opera sempre le stesse stelle, non altre.

— Bene. Ho la lista completa, allora. C’è stato qualche cambiamento nella velocità di spostamento di qualcuna di esse?

— No. Per quanto sembri impossibile, resta costante. Qual’è la sua idea?

— Prima voglio controllare la mia teoria. Se dovesse funzionare, in un modo o nell’altro, la richiamerò. — Ma si dimenticò di farlo.

Fu un lavoro lungo e noioso. Prima di tutto, Hale disegnò una carta stellare dettagliata della zona del cielo fra l’Orsa Maggiore e il Leone. Attraverso quella zona, tracciò 468 linee diritte che rappresentavano la proiezione delle traiettorie di ogni stella aberrante. Ai bordi di quella mappa, nei punti in cui ognuna di quelle traiettorie vi penetrava, annotò la velocità apparente della stella — non in anni-luce all’ora, bensì in gradi all’ora — con l’approssimazione fino al quinto decimale.

Poi fece qualche ragionamento.

— Postulando che il movimento, iniziatosi contemporaneamente per tutte, s’interrompa simultaneamente, — si disse, — proviamo a indovinare quale l’istante… Facciamo, ad esempio, le dieci di domani sera.

Ci provò, e fissò il complesso delle estrapolazioni sulla carta. Niente.

Provò allora con l’una del mattino. Sembrò quasi… che avesse senso!

Tornò indietro a mezzanotte.

Funzionava. In ogni caso, c’era vicino, ormai. I calcoli potevano avere discrepanze di qualche minuto, al più, e non valeva la pena, adesso, andare a cercare l’istante esatto. Soprattutto adesso che conosceva quell’incredibile fatto.

Trangugiò un altro drink e fissò la carta con sguardo truce.

Una capatina in biblioteca diede al professor Hale l’ulteriore informazione che gli serviva: l’indirizzo!

Così, ebbe inizio la saga del viaggio del professor Hale. Un viaggio inutile, è vero, ma un viaggio che poteva ben annoverarsi alla pari di quello del dottor Livingstone.

Lo iniziò con un drink. Poi, conoscendo la combinazione, aprì e saccheggiò la cassaforte nell’ufficio del rettore. L’appunto che lasciò nella cassaforte era un capolavoro di concisione. Diceva:

Presi soldi. Spiegherò dopo.

Poi trangugiò un altro sorso e s’infilò la bottiglia in tasca. Uscì e chiamò un tassi.

Ci s’infilò dentro.

— Dove, signore? — chiese il tassista.

Il professor Hale gli diede un indirizzo.

— Fremont Street? — chiese il tassista. — Scusi, signore, ma non so dove si trova.

— A Boston, — disse il professor Hale. — Avrei dovuto dirglielo… a Boston.

— Boston? Vuol dire Boston, Massachusetts? È parecchio lontano da qui.

— Perciò, sarà meglio partire subito, — disse il professor Hale, a fil di logica. Una breve discussione d’ordine finanziario e il trasferimento d’una consistente porzione del denaro prelevato dalla cassaforte dell’università, ridiedero una completa tranquillità di spirito al tassista. Si misero in viaggio.

Era una notte d’un gelo pungente, per il mese di marzo, e il riscaldamento del tassì non funzionava molto bene. Ma il Tartan Plaid funzionò in modo superlativo sia per il professor Hale che per il tassista, e quando ebbero raggiunto New Haven ambedue cantavano a gran voce le canzoni dei vecchi tempi.

— Via ce ne andiamo, nell’ampia selva al di làaaa… — ruggivano le loro voci.

Si racconta, per quanto, data l’incresciosità della cosa, sia con ogni probabilità un parto della fantasia, che a Hartford il professor Hale si sia rivolto sfrontatamente a una giovane donna in attesa d’un tram notturno, sporgendosi dal finestrino, chiedendole se volesse andare a Boston. Comunque, a quanto pare, la giovane donna non andò a Boston poiché, alle cinque del mattino, quando la macchina si arrestò davanti al 614 di Fremont Street, Boston, soltanto il professor Hale e il tassista si trovavano al suo interno.

Il professor Hale scese dal tassì e guardò la casa. Era la dimora d’un milionario, ed era circondata da un’alta cancellata di ferro con del filo spinato in cima. Il cancello era chiuso a chiave e non c’era nessun campanello visibile.

Ma la casa si trovava a un solo tiro di sasso dal marciapiede e il professor Hale non si lasciò scoraggiare. Tirò un sasso. Poi un altro. Alla fine riuscì a fracassare un vetro.

Dopo un breve intervallo, un uomo comparve alla finestra. Un maggiordomo, decise il professor Hale.

— Sono il dottor Milton Hale, — gridò. — Voglio vedere subito Rutherford R. Sniveley. È importante.

— Il signor Sniveley non è in casa, signore, — rispose il maggiordomo. — In quanto alla finestra…

— Al diavolo la finestra? — urlò il professor Hale.

— Dov’è Sniveley?

— A pescare.

— Dove?

— Ho ordini precisi di non dare quest’informazione.

Forse il professor Hale era un po’ ubriaco. — Me la darà lo stesso, — ruggì. — Per ordine del Presidente degli Stati Uniti.

Il maggiordomo scoppiò a ridere: — Non lo vedo proprio.

— Lo vedrà, — ribadì Hale.

Tornò al tassi. Il conducente si era addormentato, ma Hale lo svegliò a scossoni.

— La Casa Bianca, — gli ordinò il professor Hale.

— Uh?

— La Casa Bianca, a Washington, — ripeté il professor Hale. — E in fretta! — Tirò fuori di tasca un altro biglietto da cento dollari. Il tassista lo fissò e cacciò un gemito. Poi s’infilò la banconota in tasca e mise in moto l’auto.

Cominciava a cadere una spolverata di neve.

Mentre la macchina si allontanava, Rutherford R. Sniveiey, sogghignando, si allontanò dalla finestra. Il signor Sniveiey non aveva mai avuto un maggiordomo.

Se il professor Hale avesse conosciuto il bizzarro carattere dell’eccentrico signor Sniveiey, avrebbe capito subito che Sniveiey non teneva mai servitori durante la notte, ma viveva solo nella grande casa al 641 di Fremont Street. Ogni mattina, alle dieci, un piccolo esercito di servitori invadeva la casa, facevano tutti i lavori il più rapidamente possibile, e se ne andavano tutti prima dell’ora fatidica, mezzogiorno. A parte quelle due ore, ogni giorno, il signor Sniveiey viveva in solitario splendore. Aveva pochissimi contatti sociali, se pur ne aveva.