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Sue stava già distribuendo i tubetti, e parecchi passeggeri li usarono immediatamente. Ora dormivano gli Schuster. L’avvocato, con tenera sollecitudine, aveva praticato, l’iniezione nel braccio della moglie già assopita. B dormiva anche l’enigmatico signor Radley. Ne restavano quindici. Chi sarebbe stato il prossimo?

Sue era accanto alla signorina Morley. «Stavolta basta» pensò Pat. «Se quella strega dice ancora una parola…»

«Credevo di avere spiegato una volta per tutte che non intendo usare quella roba, Portate via quel tubetto, per favore.»

Robert Bryan stava già per farsi avanti, ma furono l’accento oxfordiano e il tono ironico usato dal signor Barrett a risolvere la questione.

«Ciò che turba questa brava signorina, capitano» osservò Barrett «è il pensiero che possiate approfittare di lei durante il sonno.»

Per qualche istante, l’acida giornalista rimase senza parole per lo sdegno, mentre le sue guance diventavano cianotiche.

«Non ero mai stata insultata così in vita mia!» cominciò.

«Nemmeno «io», signorina» l’interruppe Pat, dandole il colpo di grazia. La donna guardò le facce che l’attorniavano: molte erano serie, ma altre avevano un’espressione divertita, perfino in un momento simile, e lei capì che le restava una sola via d’uscita.

Mentre la Morley si afflosciava sul sedile, Pat tirò un sospiro di sollievo. Ora le cose sarebbero andate molto meglio.

Erano due anni che Lawrence non metteva piede in un igloo, e da allora erano stati apportati molti miglioramenti. Un igloo era una specie di tenda pressurizzata, una vera casa spaziale.

Lawrence si chinò per passare attraverso il compartimento stagno, aspettò il segnale di pressione compensata, poi entrò nel grande locale emisferico.

Lawrence poteva vedere solo una parte dell’interno di quel mezzo pallone perché una delle novità era la suddivisione per mezzo di paratie mobili. In alto, sospese a sostegni elastici, c’erano le lampade e la griglia per il condizionamento dell’aria. Contro le pareti curve si vedevano delle scaffalature metalliche ribaltabili. Dall’altra parte della paratia più vicina arrivava una voce che leggeva un inventario. Un’altra voce rispondeva regolarmente: «Controllato».

Lawrence girò attorno alla parete e si trovò nella sezionedormitorio dell’igloo. Come gli scaffali, anche i letti erano ribaltabili. Due assistenti stavano effettuando gli ultimi controlli, dopo di che l’igloo sarebbe stato sgonfiato e spedito sul posto.

Lawrence aspettò che i due avessero finito, poi s’informò: «È questo il modello più grande che avete in magazzino?»

«È il più grande di quelli disponibili. Ne avremmo un altro per sei, ma c’è una lieve perdita nel telone esterno e bisognerebbe aggiustarla.»

«Quanto ci vuole?»

«Pochi minuti. Ma poi bisogna lasciar passare dodici ore per vedere se tiene. È il regolamento.»

Ci sono momenti in cui proprio colui che ha creato una regola si vede costretto a infrangerla.

«Non possiamo aspettare per la prova. Fate una riparazione rinforzata e controllate subito se perde ancora. Se la perdita eventuale rientra nei limiti di sicurezza, spedite immediatamente l’igloo sul posto. Vi autorizzo io.»

Il rischio era minimo, e poteva esserci bisogno di quella grande cupola al più presto possibile. In qualche modo, bisognava provvedere aria e riparo per i ventidue del Selene.

Dal comunicatore dietro l’orecchio sinistro di Lawrence arrivò un bipbip insistente. L’ingegnere premette il pulsante inserito nella cintura della sua tuta e stabili il contatto.

«Qui l’ingegnere capo.»

«Un messaggio urgente dal Selene, signore» annunciò una voce chiara. «Ci sono guai a bordo.»

Grazie al Cielo, tutti i passeggeri dormivano. Gli ultimi ribelli erano stati colti di sorpresa dai cinque aiutanti.

«E adesso non avete più bisogno di me» concluse Sue, con un sorriso coraggioso. «Arrivederci, Pat. Svegliami quando sarà il momento.»

«Certo» promise lui, sdraiandola gentilmente nello spazio tra due sedili. «O non ti sveglierò affatto» aggiunse, quando la vide con gli occhi chiusi.

Rimase chino sulla ragazza per alcuni secondi, prima di riuscire a dominare la propria emozione. Avrebbe voluto dirle tante cose, ma ormai l’occasione era sfumata, forse per sempre.

Si rialzò e guardò i cinque compagni ancora svegli. C’era ancora un problema da risolvere, e fu Barrett ad affrontarlo.

«E allora, capitano, non ci tenete in sospeso. Chi avete scelto per tenervi compagnia?»

Uno alla volta, Pat porse cinque tubetti.

«Grazie dell’aiuto che mi avete dato» disse. «Questo sistema vi sembrerà un po’ melodrammatico, ma è il più semplice: solo quattro di queste iniezioni faranno ‘effetto. Uno dei tubetti è vuoto.»

«Spero che non sia il mio» disse Barrett, praticandosi l’iniezione. Infatti si addormentò. Qualche secondo più tardi, Harding, Bryan e Johanson gli tenevano compagnia.

«Bene» commentò il dottor McKenzie. «A quanto pare è toccato a me. Sono lusingato della vostra scelta… o vi siete affidato alla sorte?»

«Prima di rispondere alla vostra domanda» replicò Pat «sarà meglio informare Porto Roris di quanto è successo.»

Andò fino alla radio e trasmise un breve resoconto della situazione. All’altra estremità ci fu qualche istante di silenzio; poi l’ingegnere capo Lawrence venne messo in contatto.

«Avete fatto benissimo» disse, quando Pat gli ebbe spiegato tutto con ricchezza di particolari. Anche nella migliore delle ipotesi, non potremo raggiungervi prima di cinque ore. Ce la farete a resistere?

«In due, sì» rispose Pat. «Possiamo usare a turno il respiratore della tuta spaziale. È dei passeggeri che mi preoccupo.»

«L’unica cosa da fare è controllare il loro respiro. Se vi sembrano in gravi difficoltà, date un po’ d’ossigeno. Dal canto nostro faremo tutto il possibile per arrivare presto. Avete altro da comunicare?»

Pat rifletté. «No» rispose poi. «Richiamerò ogni quarto d’ora. Chiudo.»

Si alzò, lentamente. La stanchezza e gli effetti dell’anidride carbonica cominciavano a farsi sentire. «Forza, dottore» disse a McKenzie «datemi una mano con quella tuta.»

«Oh, è vero. L’avevo completamente dimenticata!»

«E io temevo che gli altri passeggeri se ne ricordassero.»

Ci vollero cinque minuti esatti per staccare dalla tuta la provvista di ossigeno di 24 ore.

I due uomini ancora coscienti a bordo del Selene si guardarono al di sopra del grigio cilindro di metallo che conteneva un altro giorno di vita. Poi, contemporaneamente, esclamarono: «Prima voi!»

Avevano i polmoni indolenziti, ma risero ugualmente. Poi Pat rispose: «Non voglio discutere» e si portò la maschera al volto,

Un po’ di vento dopo una polverosa giornata d’estate, una folata d’aria di montagna venuta a spazzare l’atmosfera stagnante di una profonda vallata… Ecco cosa ricordò a Pat quella boccata d’ossigeno. Respirò quattro volte, profondamente, espirando ben bene per liberare i polmoni dall’anidride carbonica. Poi porse la maschera a McKenzie, come se fosse stata un calumet della pace.

Quei quattro profondi respiri erano stati sufficienti a rinvigorirlo e a spazzare via la nebbia che già offuscava il cervello. Forse quel sollievo era in parte dovuto a cause psicologiche, comunque si sentiva un uomo nuovo. Ora poteva affrontare con tranquillità le cinque ore di attesa.

Dieci minuti dopo, si concessero qualche altra boccata tonificante. I passeggeri respiravano tutti normalmente, in modo lento ma regolare. Pat richiamò la Base.

«Qui Selene. Parla il capitano Harris. Il dottor McKenzie e io siamo abbastanza in forma, e i passeggeri sembrano in condizioni soddisfacenti. Richiamerò tra un quarto d’ora. Lascio la ricevente sull’ascolto. Chiudo.»