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«Non è amico mio» protestò Spenser. «L’ho visto solo due volte. La prima gli ho cavato dieci parole, la seconda si è addormentato.»

«Be’, da allora ha fatto progressi, mi puoi credere. Lo vedrai tra quarantacinque minuti in trasmissione.»

«Non ci tengo. M’interessa di più Lawrence. Ha fatto qualche dichiarazione? Dovrebbe essere possibile avvicinarlo, ora che la tensione si è allentata.»

«È ancora occupatissimo e non vuole parlare. Per ora non si sa niente dei suoi progetti. Se salta fuori qualcosa, te lo faremo sapere.»

Spenser friggeva. Avrebbe voluto precipitarsi a Clavius City, dove il materiale giornalistico raccolto da lui e da Jules veniva montato e mandato in onda. Era impossibile, naturalmente e, del resto, se anche avesse potuto farlo, poi se ne sarebbe pentito. Quella, infatti, era l’occasione più importante e più interessante, di tutta la sua carriera. Spenser sapeva già che era l’ultima volta in cui poteva riprendere un servizio sul posto, come cronista. In seguito, grazie proprio al successo ottenuto, sarebbe stato inchiodato irrevocabilmente dietro una scrivania di dirigente… o, nella migliore delle ipotesi, dentro una comoda cabina di regia dietro gli schermi monitor di Clavius City.

C’era ancora una gran pace dentro il Selene, ma era una calma di sonno, non di morte. Tra non molto, tutte quelle persone si sarebbero svegliate, per salutare un nuovo giorno che pochi di loro avevano sperato di veder spuntare..

Pat Harris, in equilibrio instabile sullo schienale di un sedile, riparava il guasto ai fili della luce. Per fortuna il trapano non era penetrato mezzo centimetro più a sinistra, altrimenti avrebbe interrotto anche il contatto radio, e allora sì che sarebbe stato un affare serio.

Le luci principali si riaccesero, quasi accecanti dopo la penombra rossastra. Contemporaneamente, ci fu un fortissimo rumore improvviso, così inaspettato che Pat, per la sorpresa, perse l’equilibrio.

Prima di toccare terra, aveva capito cos’era: uno sternuto.

I passeggeri cominciavano a svegliarsi, e lui, forse, aveva esagerato con l’abbassamento di temperatura, perché adesso in cabina faceva un freddo diabolico.

Pat si domandò chi sarebbe stato il primo a riprendere conoscenza. Lui si augurava che fosse Sue, così avrebbero potuto parlare un po’ senza venire interrotti.

Sotto il riparo di indumenti e coperte, una prima figura si stava agitando. Pat si precipitò per offrire aiuto; poi si arrestò, e mormorò a fior di labbra: «Oh, no!»

Be’, non sempre poteva andar bene, e un capitano doveva fare il suo dovere, in qualunque caso. Si chinò sulla figura ossuta che tentava di rialzarsi e disse gentilmente: «Come vi sentite, signorina Morley?»

«Stanno arrivando le slitte, ingegnere.»

Lawrence si issò di nuovo a bordo della piattaforma, Sì, ecco là la Slitta Uno e anche la Tre, spedita di rinforzo dall’altro emisfero. Ciascuna rimorchiava due traini, carichi di attrezzature varie.

La prima cosa a essere scaricata fu la grossa scatola che conteneva l’igloo, Era sempre affascinante osservare un igloo che veniva gonfiato, e Lawrence non era mai stato tanto ansioso di rimirare lo spettacolo. Il processo era totalmente automatico; bastava rompere i sigilli, toccare due leve separate e poi aspettare.

L’attesa di Lawrence fu brevissima. I lati dello scatolone si aprirono rivelando un ammasso di tessuto argenteo strettamente ripiegato, e subito il tessuto si animò e si mosse come una creatura viva, espandendosi e irrigidendosi con strappi improvvisi via via che i generatori pompavano aria nell’intercapedine. Appena raggiunta la massima espansione orizzontale, l’igloo cominciò a crescere verso l’alto, e già il compartimento stagno si gonfiava separandosi dalla cupola principale. Sembrava quasi anormale che tutto avvenisse nel più assoluto silenzio, e in tre minuti esatti.

Ora la struttura aveva quasi raggiunto le sue dimensioni definitive e appariva evidente che il nome di igloo era il più indicato per definirla. Sebbene disegnati per offrire riparo contro un ambiente totalmente diverso, anche se altrettanto ostile, i ricoveri di neve degli antichi esquimesi avevano un tempo la stessa forma. Il problema tecnico da risolvere era stato analogo, e così la soluzione.

Ci voleva molto più tempo per installare le attrezzature necessarie che per gonfiare l’igloo; ogni pezzo, infatti (cuccette, sedie, tavoli, armadietti, apparecchi e impianti elettrici di vario genere), doveva essere trasportato all’interno attraverso il portello stagno. Ma, finalmente, dall’interno della cupola arrivò un messaggio radio. «Siamo pronti! Potete entrare, ingegnere!»

Lawrence non perse tempo. Era ancora nella sezione esterna del compartimento stagno e già cominciava a liberarsi dell’equipaggiamento della sua tuta. Appena udì le voci dall’interno, che ormai gli giungevano attraverso l’atmosfera quasi normale del compartimento, si tolse il casco.

Era meraviglioso tornare un uomo libero: potersi scuotere, grattare, muoversi senza l’ingombro dell’equipaggiamento spaziale, e parlare con gli altri faccia a faccia. Il minuscolo impiantodoccia l’aiutò a levarsi di dosso l’odore della tuta e a rendersi presentabile per tornare nel consorzio umano. Poi Lawrence si sedette a un tavolino per conferire con i suoi assistenti.

La maggior parte del materiale ordinato era arrivato con quella spedizione; il resto sarebbe arrivato tra poche ore con la Slitta Due. L’ossigeno era assicurato, il che scongiurava eventuali catastrofi. L’acqua del Selene cominciava a scarseggiare, ma si poteva fornirla facilmente. Per il cibo la questione era più complessa, ma in fondo si trattava più che altro di un problema di imballaggio. Già erano arrivati i campioni di cioccolata, di carne compressa, di formaggio e altro, il tutto incartato in piccoli cilindri del diametro di tre centimetri. Tra poco sarebbero stati lanciati dentro i tubi dell’aria, contribuendo a rialzare il morale a bordo del battello affondato.

Ma tutto questo era meno importante delle raccomandazioni pervenute dal suo «consorzio di cervelli». Raccomandazioni condensate in un conciso memorandum di sei pagine. Lawrence le lesse attentamente, approvando di tanto in tanto con la testa. Era già arrivato anche lui alle stesse conclusioni e non vedeva proprio nessun’altra soluzione.

Qualunque fosse il destino dei passeggeri, il Selene aveva fatto il suo ultimo viaggio.

L’uragano che per qualche istante aveva spazzato il Selene pareva aver trascinato con sé qualcosa di più dell’aria avvelenata. Riandando ai primi giorni trascorsi sotto la polvere, il commodoro Hansteen si rendeva conto che molto spesso, superata la sorpresa iniziale, lo stato d’animo generale a bordo del Selene aveva raggiunto il punto critico. Nel tentativo di mantenere alto il morale, tutti quanti si erano abbandonati a una falsa gaiezza e a un comportamento quasi infantile.

Adesso non era più così. Il cambiamento era dovuto in parte al fatto che le squadre di soccorso lavoravano a pochi metri di distanza, ma soprattutto dall’aver guardato in faccia la morte. Dopo quegli attimi, ognuno si era liberato da ogni residuo di vigliaccheria ed egoismo.

Hansteen aveva già osservato qual fenomeno tante volte, quando gli equipaggi delle sue navi spaziali si erano trovati in pericolo nelle più remote località del sistema solare. Pur non essendo incline alla speculazione, il commodoro aveva avuto tutto il tempo di riflettere, durante i suoi viaggi nello spazio. A volte si era domandato se la vera ragione per cui gli uomini cercavano il pericolo non fosse dovuta al desiderio inconscio di trovarsi finalmente affratellati veramente.

Gli sarebbe dispiaciuto separarsi da tutti i passeggeri, quando fosse giunto il momento. Perfino dalla signorina Morley che ora si mostrava amabile quanto glielo consentiva il carattere bisbetico.

Pensare al futuro era già prova di ottimismo. Nessuno poteva giurarlo, ma la situazione sembrava completamente sotto controllo. Non si sapeva quando l’ingegner Lawrence li avrebbe tirati fuori di lì, ma ormai il problema si era ridotto a una scelta tra diversi sistemi. La loro prigionia si era ridotta a una semplice seccatura, ma non era più un pericolo.