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Su in alto, una stretta fascia di cielo stellato era tutto ciò che si poteva vedere del mondo esterno; la fascia descriveva curve pazzesche, da sinistra a destra e viceversa, ad ogni scarto del Selene. La Corsa Notturna, come Pat l’aveva battezzata segretamente, durava meno di cinque minuti, ma sembrava molto più lunga. Quando il pilota riaccese il faro, e il battello venne a trovarsi al centro di una grande chiazza luminosa, dai passeggeri si levò un sospiro generale di sollievo misto a disappunto. Ecco un’esperienza che nessuno di loro avrebbe dimenticato tanto presto.

Ora che la luce era tornata, i passeggeri scoprirono di essere sul fondo di una stretta valle, o gola, le cui pareti andavano lentamente scostandosi. E infine il canyon si allargò in una specie di anfiteatro ovale largo circa tre chilometri: il cuore di un vulcano estinto, apertosi milioni di anni prima, quando perfino la Luna era giovane.

Il cratere, rispetto alla media dei crateri lunari, poteva considerarsi piccolo, ma era unico nel suo genere. L’onnipresente polvere vi era confluita aprendosi pazientemente un varco attraverso la gola, e adesso i turisti potevano scorrazzare morbidamente molleggiati in quello che una volta era stato un calderone pieno di fuochi dell’inferno. Quei fuochi si erano estinti molto prima che la vita terrestre vedesse la sua alba, e non si sarebbero riaccesi mai più. Ma c’erano altre forze non ancora estinte che stavano solo aspettando il loro momento.

Senza fretta, Pat fece compiere due volte al battello il giro del lago, lasciando che le luci dei fari corressero su e giù lungo le pareti di roccia. Era il momento migliore per ammirarlo; di giorno, quando il sole lo incendiava di luce e di calore, il cratere perdeva molto del suo incanto. Di notte, invece, sembrava appartenere al regno della fantasia, pareva uscito dalla penna di Edgar Allan Poe. In ogni istante sembrava di scorgere strane forme in movimento proprio al margine del campo visivo, oltre la breve zona luminosa dei fari. Era solo uno scherzo dell’immaginazione, naturalmente; nulla si muoveva in quella terra, salvo le ombre del sole e della Terra. Non potevano esserci fantasmi in un mondo che non aveva mai conosciuto la vita.

Era tempo di tornare, di ripercorrere il canyon e riprendere il mare aperto. Pat diresse la prua del Selene verso la stretta gola tra le montagne, e le alte pareti di roccia si richiusero attorno allo scafo. I fari rimasero accesi, perché i passeggeri potessero osservare meglio il percorso; del resto, il trucco della Corsa Notturna perdeva d’effetto se ripetuto.

Molto più avanti, oltre la zona illuminata dal Selene, un altro chiarore andava affacciandosi e si diffondeva dolcemente sulle rocce e le fenditure. Perfino durante l’ultimo quarto, la Terra aveva lo splendore di una dozzina di lune piene, e adesso che il battello stava emergendo dall’ombra delle montagne, la vivida falce tornava a dominare il cielo. Ciascuno dei ventidue passeggeri del Selene aveva gli occhi rivolti all’astro verdeazzurro, ne ammirava la bellezza e si meravigliava di tanto fulgore.

Faceva un effetto strano pensare che fossero i campi e le foreste e i laghi della Terra a brillare di tanta gloria! Forse c’era una morale, in questo, forse nessuno sapeva apprezzare il proprio mondo finché non l’aveva visto dallo spazio.

Sulla Terra, intanto, molti occhi dovevano essere rivolti verso la Luna… ora più che mai, visto che la Luna era diventata così importante per l’umanità. Ed era possibile, per quanto poco probabile, che alcuni di quegli occhi stessero proprio fissando, attraverso potenti telescopi, il lieve barlume dei fari del Selene che correva nella notte lunare. Ma nessuno ci avrebbe fatto caso se quel barlume avesse tremolato e si fosse spento.

Per un milione di anni la bolla aveva continuato a crescere, come un gigantesco ascesso, proprio sotto la radice delle montagne. Attraverso tutta la storia dell’uomo, il gas racchiuso nel cuore non ancora completamente spento della Luna si era infiltrato nei punti più deboli della crosta lunare, accumulandosi in cavità che restavano a centinaia di metri sotto la superficie. Ora, l’ascesso era maturo e pronto per scoppiare.

Il capitano Harris aveva lasciato i comandi al pilota automatico e stava chiacchierando con i passeggeri della prima fila quando il primo tremito scosse l’imbarcazione. Per una frazione di secondo Pat Harris si domandò se uno dei ventilatori avesse urtato contro qualche ostacolo sommerso; poi, il suo mondo gli mancò letteralmente sotto i piedi.

Si spalancò lentamente, come va a rilento tutto ciò che accade sulla Luna. Davanti al Selene, in un cerchio che si estendeva per molte centinaia di metri, la liscia distesa si era contratta come un ombelico. Il Mare della Sete si era animato e si muoveva, sconvolto da forze destate da un sonno millenario. Il centro del movimento sismico era al fondo di una specie di imbuto, come se nella polvere si fosse formato un mulinello gigantesco. Ogni fase di quella agghiacciante metamorfosi fu spietatamente illuminata dal chiarore terrestre: in pochi istanti il cratere divenne così profondo che la parete opposta si perse nell’ombra, e sembrò a tutti che il Selene stesse precipitando in una sacca di assoluta oscurità, lungo un arco di annientamento.

La verità era quasi altrettanto tragica. Quando Pat raggiunse i comandi, il battello stava ormai precipitando giù per quella impossibile china, trascinato dal proprio slancio e spinto dal flusso della polvere che ricadeva verso il fondo del cratere. Pat non poté fare altro che tentare di mantenere lo scafo in equilibrio, e sperare che quella velocità li spingesse su per l’altro versante dell’imbuto prima che questo si richiudesse sopra di loro.

Forse i passeggeri urlarono atterriti, ma Pat non li udì. Era conscio unicamente di quello spaventoso precipitare e del proprio sforzo per impedire allo scafo di rovesciarsi.

Già il Selene cominciava a inerpicarsi su per l’altra parete, già il bordo del cratere pareva vicino, ma sotto lo scafo la sabbia cedeva, le eliche annaspavano come le zampe di un insetto. I motori spinti al massimo riuscivano a guadagnare un po’ di strada, ma non era sufficiente. La polvere scendeva sempre più rapida verso il fondo dell’imbuto e, quel che era peggio, cominciava a sommergere le paratie del battello. Ecco: aveva già raggiunto il bordo inferiore dei finestrini; ora stava salendo lungo le vetrate… le aveva coperte completamente. Harris spense i motori prima che andassero in pezzi, e subito la marea montante della polvere cancellò l’ultimo chiarore che ancora si intravedeva della falce di Terra. Nel buio e nel silenzio il Selene sprofondò nella Luna.

Nella Sala degli impianti elettronici per il Controllo del Traffico, dal Lato Terra una memoria elettronica si risvegliò inquieta. Le otto di sera, ora lunare, erano passate da un secondo, e uno schema di impulsi, che sarebbe dovuto arrivare automaticamente allo scoccare di ogni ora, non era comparso.

Con una rapidità inconcepibile per il pensiero umano, il piccolo insieme di cellule e di microscopici relais cercò istruzioni: «ASPETTARE CINQUE SECONDI» dissero gli ordini codificati «SE NON ACCADE NULLA, CHIUDERE IL CIRCUITO 10011001.»

La minutissima parte del sistema elettronico fin qui interessata al problema aspettò con pazienza che quell’enorme periodo di tempo trascorresse… una vera eternità, sufficiente per fare cento milioni di addizioni da venti cifre, o per stampare buona parte della Biblioteca del Congresso. Poi chiuse il circuito.

In alto, sopra la superficie della Luna, da un’antenna che era puntata direttamente verso la Terra, un impulso radio si lanciò nello spazio. In un sessantesimo di secondo aveva percorso i cinquantamila chilometri fino al satelliterelais noto sotto il nome di Lagrange II, direttamente in linea tra la Terra e la Luna. Un altro sessantesimo di secondo e l’impulso era di ritorno, sensibilmente amplificato, e investiva tutto il Lato Terra Nord della Luna, dal polo all’equatore.