Dall’alto, arrivò un tonfo sordo. Poteva significare una sola cosa: la benna aveva raggiunto il fondo del pozzo, e il cassone era vuoto. Ora poteva venire collegato a uno degli igloo ed essere riempito d’aria.
Ci volle più di un’ora per completare l’operazione ed effettuare tutte le prove necessarie. Uno degli igloo appositamente modificato aveva nel pavimento un foro abbastanza largo per lasciar passare l’estremità sporgente del cassone. La vita dei passeggeri del Selene, nonché quella degli uomini addetti alle operazioni di soccorso, poteva dipendere dalla perfetta tenuta di quel raccordo.
L’ingegnere capo Lawrence si assicurò della messa in opera, poi si tolse la tuta e si avvicinò alla bocca del pozzo. Tenendo una torcia elettrica sospesa sull’apertura, scrutò nel tubo che sembrava sprofondare all’infinito. Invece, il fondo era a soli diciassette metri. Perfino con la bassa gravità lunare, un oggetto avrebbe impiegato solo pochi secondi ad arrivare al battello.
Lawrence si girò verso gli assistenti: erano in tuta, ma con la piastra facciale abbassata. Se qualcosa andava male, quelle piastre potevano essere richiuse in una frazione di secondo, e gli uomini dentro la tuta avrebbero avuto buone probabilità di salvarsi. Ma per Lawrence non ci sarebbe stata speranza. Né per le ventidue persone a bordo del Selene.
«Sapete quel che dovete fare» disse Lawrence. «Se mi serve risalire in fretta, isserete la scala di corda tutti insieme. Nessuna domanda?»
Nessuna. Tutto era stato già studiato fin nei minimi particolari. Un cenno ai suoi uomini, un coro di «Buona fortuna» in risposta, e Lawrence si calò dentro l’imboccatura del pozzo.
Si lasciò cadere per un buon tratto, aggrappandosi di tanto in tanto alla scala di corda per frenare la caduta. Sulla Luna si poteva scendere a quel modo quasi senza pericolo, data la bassa gravità, ma era meglio essere prudenti. Infine toccò il fondo con un lieve rimbalzo. Là si accoccolò sulla piccola piattaforma di metallo, non più larga del coperchio di un tombino, e la esaminò attentamente.
Sotto i suoi piedi, a pochi centimetri di distanza, c’era il tetto inclinato del battello. Il problema era di far combaciare l’estremità orizzontale del pozzo con il tetto in pendenza dell’imbarcazione in maniera che il contatto fosse a perfetta tenuta.
Lawrence non vedeva nessuna pecca nel piano architettato dai migliori ingegneri della Terra e della Luna. Ma la teoria è una cosa, la pratica è un’altra.
C’erano dei grossi galletti scaglionati lungo la circonferenza del disco metallico sul quale Lawrence poggiava. L’ingegnere cominciò ad avvitarli uno alla volta, come un suonatore di tamburo intento ad accordare lo strumento. Connessa alla parte inferiore della piattaforma c’era una breve sezione di tubo pieghevole, largo quasi quanto il cassone, e ora completamente ripiegato. Costituiva un raccordo flessibile, abbastanza largo perché un uomo potesse passarvi, e si stava estendendo lentamente, via via che Lawrence regolava le viti. Una parte del tubo pieghevole doveva tendersi per quarantacinque centimetri, prima di raggiungere il tetto in pendenza; l’altra doveva tendersi di pochi centimetri. La preoccupazione principale di Lawrence era che la resistenza della polvere impedisse alla fisarmonica di aprirsi, ma le viti stavano avendola vinta sulla pressione contraria.
Ora erano tutte strette al massimo. L’estremità inferiore del raccordo a fisarmonica doveva essere giunta a contatto del tetto del Selene, al quale aderiva, almeno così si augurava Lawrence, per mezzo del rivestimento in gomma concava che correva tutto intorno all’orlo. Fino a che punto quella gomma tenesse, lo si sarebbe visto presto.
Lawrence guardò in su, lungo la colonna del pozzo. Non vedeva niente oltre il chiarore della lampada portatile che dondolava a due metri sopra la sua testa, ma la scala di corda che si stendeva verso l’alto bastava a rassicurarlo.
«Ho abbassato il raccordo pieghevole» urlò ai suoi invisibili assistenti. «Pare che aderisca al tetto. Ora apro la valvola.»
Un piccolo errore a questo punto, e l’intero pozzo sarebbe stato inondato dalla polvere, forse in modo irreparabile.
Con la massima cautela, Lawrence sbloccò la botola che aveva permesso alla polvere di fluire attraverso il pistone durante la discesa. Non ci fu nessun segno di inondazione. Il tubo pieghevole sotto i suoi piedi riusciva egregiamente a tenere indietro il Mare della Sete.
Lawrence allungò una mano attraverso la botola, e le sue dita toccarono il tetto del battello, ancora nascosto da un leggero strato di polvere, ma ormai a una sola spanna di distanza. Pochi risultati, in tutta la sua carriera, gli avevano procurato la soddisfazione di questo. L’impresa non poteva dirsi compiuta, ma il disgraziato Selene era stato raggiunto!
L’ingegnere batté tre volte sul tetto; immediatamente ricevette la risposta. Era inutile iniziare una conversazione Morse, perché volendo si poteva benissimo comunicare direttamente, attraverso il circuito radio; ma Lawrence sapeva che quei colpi avrebbero avuto un effetto psicologico molto più forte. Era la prova, per le persone prigioniere dentro lo scafo, che la salvezza era ormai a pochi centimetri.
Ma c’erano altri ostacoli importantissimi da eliminare. Prima di tutto, la piattaforma che chiudeva il pistone. Ormai aveva servito allo scopo, che era quello di trattenere la polvere mentre il cassone veniva vuotato, e doveva essere rimosso per poter liberare i passeggeri del Selene Questo però andava fatto senza compromettere la stabilità del raccordo flessibile.
A questo scopo, il fondo circolare del pistone era stato costruito in modo da poter essere sollevato, come un coperchio di casseruola, svitando otto grossi bulloni. Lawrence impiegò pochi minuti per svitare i bulloni e assicurare un cavo al disco ormai staccato, poi gridò: «Tiratelo su!»
Un uomo più grasso di lui si sarebbe dovuto arrampicare su per il pozzo fino in cima per permettere al disco di risalire, Lawrence invece si limitò ad appiattirsi contro la parete circolare mentre la piastra di metallo, muovendosi un po’ di traverso, passava. «Se ne va l’ultima linea di difesa» pensò l’ingegnere, guardando il disco sparire verso l’alto. Ora sarebbe stato impossibile sigillare di nuovo il pozzo, nel caso che il raccordo avesse ceduto lasciando via libera alla polvere.
«Secchio!» gridò. Il secchio stava già scendendo.
«Quarant’anni fa» pensò Lawrence «giocavo su una spiaggia della California col secchiello e la paletta, facendo castelli di sabbia. Ora sono sulla Luna, sono nientedimeno che l’ingegnere capo del Lato Terra, e sto qui a spalare la polvere con la massima serietà, mentre l’umanità intera segue quello che faccio.»
Quando il primo secchio venne issato, Lawrence aveva messo allo scoperto una parte considerevole del tetto del Selene. La quantità di polvere intrappolata all’interno del raccordo pieghevole era trascurabile, e bastarono due secchi a sgomberarla.
Ora davanti a lui c’era il tessuto alluminato dello schermo solare, tutto accartocciato sotto la pressione della polvere. Lawrence lo tagliò via senza difficoltà, mettendo allo scoperto la superficie ruvida dello scafo esterno. Tagliare anche quella con una piccola sega elettrica sarebbe stato facilissimo. Purtroppo sarebbe stato anche fatale. Quando il tetto era rimasto danneggiato dalla seconda scossa, la polvere doveva essersi accumulata nell’intercapedine tra i due strati. Prima di poter entrare nel Selene, quel deposito sottile ma pericoloso di polvere andava in qualche modo neutralizzato.
Lawrence batté contro il tetto. Come immaginava, il suono era attutito dalla polvere. Ciò che non immaginava, era di ricevere in risposta un tamburellare frenetico e atterrito.