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Questo, Lawrence lo comprese subito, non era il rassicurante segnale di «Tutto bene». Prima ancora che gli uomini dall’alto potessero comunicargli la notizia, l’ingegnere aveva già intuito che il Mare della Sete stava facendo un ennesimo tentativo per trattenere la sua preda.

Karl Johanson, ingegnere nucleare, aveva un olfatto finissimo. Fu lui ad accorgersi che c’era in arrivo un’altra catastrofe. Rimase immobile per alcuni secondi, poi disse al suo vicino:

«Permettete un istante» e si avviò senza fretta verso la toilette. Non voleva causare il panico senza che ce ne fosse bisogno, specialmente ora che i salvatori erano così vicini. Ma l’esperienza professionale gli aveva insegnato a non ignorare l’odore di bruciato.

Rimase nella toilette meno di quindici secondi. Quando ne uscì camminava con passo spedito, ma non tanto da causare l’allarme. Si avvicinò a Pat Harris, che stava parlando col commodoro, e interruppe la conversazione senza cerimonie.

«Capitano, andiamo a fuoco. Controllate nella toilette. Non l’ho detto a nessun altro.»

Un istante dopo, Pat era sparito, e Hansteen con lui. Nello spazio, come sul mare, nessuno perde tempo a discutere quanto sente la parola «fuoco».

La toilette era come tutte le altre installate sui veicoli di terra, di aria o di mare; senza cambiare posizione si riusciva a toccarne tutte le pareti. Ma la parete posteriore, proprio sopra il lavandino, non era più possibile toccarla. La fibreglass era incenerita dal calore, e si stava sgretolando sotto lo sguardo atterrito dei due spettatori.

«Tra un minuto sarà bell’e andata» disse il commodoro. «Cosa sarà successo?»

Ma Pat era già scomparso. Tornò dopo pochi secondi, con due piccoli estintori.

«Commodoro, andate a comunicarlo alla piattaforma. Dite loro che forse ci restano solo pochi minuti. Resterò qui, in caso che la parete ceda.»

Hansteen obbedì senza perdere tempo.

Un momento dopo Pat lo senti trasmettere il messaggio nel microfono, e senti l’improvviso tumulto che si levava tra i passeggeri. Subito dopo la porta si aprì e apparve McKenzie.

«Posso essere utile?»

«Non credo» rispose Pat, tenendo pronto l’estintore. Sentiva un curioso intorpidimento, come se tutto questo non stesse capitando a lui, ma fosse un sogno dal quale presto si sarebbe svegliato. Forse ormai era al di là della paura. Ne aveva passate tante che era incapace di provare emozioni. Poteva ancora sopportare, ma non poteva più reagire.

«Che c’è dietro quella parete?» domandò McKenzie.

«Il generatore principale di corrente.»

«Allora si spiega. La nostra scorta di energia se ne va in calore. Probabilmente sta bruciando fin da quando i fili si sono strappati.»

La spiegazione sembrava logica. L’imbarcazione era a prova d’incendio, quindi non c’era pericolo di una combustione normale. Ma gli accumulatori producevano energia sufficiente a farla viaggiare per ore e ore alla massima velocità, e se quell’energia si consumava in calore puro, i risultati potevano essere catastrofici.

Eppure era impossibile! Un sovraccarico simile avrebbe immediatamente messo in funzione gli interruttori automatici di sicurezza. A meno che, per qualche misteriosa ragione, non si fossero guastati.

Ma non erano guasti, come McKenzie riferì dopo aver controllato.

Hansteen tornò per fare rapporto. «Dice Lawrence che il passaggio sarà pronto tra dieci minuti. Possiamo aspettare?»

«Lo sa il Cielo» rispose Pat. «Dipende da come dilaga il fuoco.»

«Ma non ci sono dispositivi antiincendio nel compartimento?»

«Non servirebbero… Questa è la nostra paratia a pressione, e normalmente dall’altra parte c’è il vuoto, il miglior elemento antiincendio che esista.»

«Ora ci sono!» esclamò McKenzie. «Il compartimento è allagato. Quando il tetto è stato forato e sono saltati via i» tubi, la polvere è penetrata nell’intercapedine. p la polvere che ha creato il corto circuito.

McKenzie aveva ragione. Purtroppo Pat sapeva che il contenuto di ferro meteorico della polvere era buon conduttore di elettricità. Al di là della paratia dovevano esserci veri e propri fuochi d’artificio.

«Qui non possiamo fare niente» osservò il commodoro. «Nemmeno gli estintori servono a molto. Faremmo meglio a uscire e a bloccare l’intero compartimento. La porta farà da isolante e ci concederà un po’ di vantaggio.»

Pat esitò.

Il calore era quasi intollerabile, ormai, ma gli sembrava una viltà abbandonare il campo. D’altra parte, Hansteen non aveva torto; se lui fosse rimasto lì finché il fuoco riusciva a passare, probabilmente sarebbe rimasto asfissiato dal fumo.

«D’accordo… usciamo» acconsentì. «Vedremo se ci riuscirà di costruire una specie di barricata al di là di questa porta.»

Era sicuro che non ci sarebbe stato molto tempo per pensarci; già poteva sentire il crepitio del fuoco dietro la paratia che ancora teneva a bada quell’inferno.

La notizia che il Selene era in fiamme non alterò il comportamento di Lawrence. Più in fretta di così non poteva procedere. Poteva solo non arrendersi e sperare di precedere l’incendio.

L’apparato che ora scendeva dall’alto sembrava una versione ingrandita di quelle siringhe che si usavano una volta per decorare le torte. Ed era realmente una specie di enorme siringa. Conteneva un composto di silicio a pressione altissima. Al momento il composto era allo stato liquido, ma non lo sarebbe rimasto per molto.

Il primo problema di Lawrence era di introdurre il liquido nell’intercapedine dello scafo senza lasciar sfuggire la polvere.

Usando una piccola pistola sparachiodi, infilò sette bulloni cavi nello scafo esterno del Selene: uno al centro della sezione circolare scoperta, gli altri sei scaglionati lungo la circonferenza.

Applicò la siringa al bullone centrale e schiacciò lo stantuffo.

Poi, con la massima rapidità, ripeté l’operazione negli altri sei. Ora la sostanza si sarebbe espansa in modo quasi uniforme tra i due scafi, formando una specie di torta del diametro di circa un metro. No… non una torta, un soufflé, perché la sostanza si sarebbe trasformata in spuma nell’attimo in cui usciva dalla siringa. Pochi secondi dopo avrebbe cominciato a solidificarsi.

Lawrence guardò l’orologio. In cinque minuti quella spuma sarebbe diventata solida come roccia, ma porosa come pomice.

Non si poteva far niente per abbreviare quei cinque minuti; tutto dipendeva dal fatto che la sostanza prendesse la consistenza voluta. Un errore suo di tempo o di dose, o un errore dei chimici alla Base, e quelli del Selene sarebbero stati spacciati.

Usò i cinque minuti per rimettere ordine nel pozzo e rimandare su tutto il materiale usato, finché sul fondo rimase solo lui, senza altro attrezzo che le sue mani. Se Maurice Spenser avesse potuto affacciare una telecamera in quel piccolo spazio, e per poterlo fare avrebbe fumato perfino un patto col diavolo, i telespettatori sarebbero stati assolutamente incapaci di predire la prossima mossa dell’ingegnere capo.

Ancora più sconcertati sarebbero rimasti, poi, se avessero visto che nel pozzo veniva calato una specie di cerchio per bambini. Ma non si trattava di un giocattolo: era la chiave che avrebbe aperto il Selene.

Sue aveva già raggruppato i passeggeri a prua, e cioè nel punto in cui la cabina era maggiormente inclinata. Tutti stavano là in formazione serrata, fissando il soffitto e sperando di captare qualche rumore incoraggiante.

Pat pensava che ne avessero tutti molto bisogno. Anche lui ne aveva bisogno, perché era l’unico a sapere, oltre forse ad Hansteen e McKenzie, la portata del pericolo che incombeva su di loro.

Il Selene ormai era una bomba già innescata. Vero che il processo di trasformazione dell’energia in calore era lento, e che il calore non poteva scoppiare, ma purtroppo non si poteva dire la stessa cosa dei serbatoi di ossigeno liquido. Quando l’aumento del calore avesse fuso i serbatoi, l’esplosione ci sarebbe stata. Piccola forse, ma sufficiente a mandare in pezzi il Selene.