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La sua preoccupazione maggiore riguardava lo spessore di quella coltre di polvere. Dovevano esserci migliaia di tonnellate di quella sostanza sopra il Selene, e lo scafo era stato progettato per resistere alla pressione dall’interno, non dall’esterno. Se avesse continuato a sprofondare, rischiava di venire schiacciato come una noce.

A che profondità si trovasse ora, Pat non lo sapeva con precisione. Quando aveva intravisto le stelle per l’ultima volta, il Selene era a circa dieci metri sotto la superficie, e forse era stato trascinato ancora più sotto dal risucchio della polvere. Era consigliabile intaccare la riserva di ossigeno e alzare un poco la pressione interna in modo da equilibrare in parte la spinta che lo scafo sopportava dall’esterno.

Molto lentamente, perché nessuno si allarmasse sentendosi ronzare le orecchie, Pat aumentò la pressione della cabina del venti per cento. Quando ebbe finito, si sentì un poco più tranquillo. E non era l’unico, perché, appena il contatore della pressione si fu stabilizzato sul nuovo livello, una voce pacata disse alle sue spalle:

«Credo sia stata un’ottima idea. Pat si girò di scatto per vedere chi fosse quel ficcanaso che lo stava a spiare, ma la protesta gli morì sulle labbra. Al primo sguardo, non aveva riconosciuto nessuno dei passeggeri; ora, però, guardando meglio, si accorse che c’era qualcosa di familiare nell’uomo robusto, dai capelli grigi, che si era avvicinato al posto di guida.»

«Non voglio immischiarmi, capitano, qui il comandante siete voi. Ma ho pensato di venire a presentarmi, nel caso che potessi esservi utile. Sono il commodoro Hansteen.»

A bocca aperta, Harris fissava l’uomo che aveva comandato la prima spedizione su Plutone, e che probabilmente aveva visto più pianeti e lune vergini di qualsiasi altro uomo della storia. Per esprimere la sua sorpresa, Pat non riuscì a dire altro che: «Ma, non eravate segnato sulla lista dei passeggeri!»

Il commodoro sorrise.

«Viaggio in incognito, col nome di Hanson. Dato che sono a riposo, ho voluto levarmi il gusto di vedere un po’ il mondo senza nessuna responsabilità. E siccome mi sono tagliato la barba, più nessuno mi riconosce.»

«Sono felicissimo di avervi qui» disse Harris con calore. Aveva già la sensazione di essersi scaricato buona parte dei suoi problemi dalle spalle; il commodoro sarebbe stato una forza nelle ore, o nelle giornate, difficili che aspettavano il Selene.

«Se non avete niente in contrario» continuò Hansteen, sempre nel tono di chi bada a rispettare l’autorità altrui «vorrei chiedervi la vostra opinione personale. Per dirla in parole povere: quanto tempo potremo resistere, secondo voi?»

«Come sempre, il fattore limite è l’ossigeno. Ne abbiamo a sufficienza per circa sette giorni, sempre che non si producano falle. Finora, però, non sembra che ce ne siano.»

«Bene, allora avremo tempo di riflettere. E quanto ai viveri e all’acqua?»

«Soffriremo un po’ la fame, ma non moriremo d’inedia. C’è una riserva d’emergenza di cibi compressi, e naturalmente l’impianto di purificazione dell’aria ci darà tutta l’acqua che ci serve. Perciò su quel lato siamo tranquilli.»

«Corrente?»

«Quanta ne vogliamo, ora che non usiamo i motori.»

«Ho notato che non avete tentato di chiamare la Base.»

«Niente da fare: la coltre di polvere ci isola. Ho messo in funzione la lunghezza d’onda di emergenza… È l’unica speranza di far passare un segnale, ma è una speranza molto debole.»

«Quindi, dovranno cercarci in qualche altro modo. Quanto ci metteranno, secondo voi?»

«Difficile dirlo. Le ricerche cominceranno alle venti, quando il nostro segnale non arriverà, ma probabilmente siamo sprofondati senza lasciare traccia.. come avrete notato, questa polvere fa sparire tutto. E poi, anche se ci trovano…»

«… come faranno a tirarci fuori?»

«Appunto.»

Il capitano del battello turistico e il commodoro dello spazio si guardarono in silenzio, fermi ai piedi dello stesso problema. Poi, sopra il brusio generale della conversazione, udirono una voce con uno spiccato accento inglese osservare: «Complimenti, signorina… è la prima tazza di tè decente che bevo sulla Luna. Finalmente qualcuno che sa preparare il tè. Brava!»

Il commodoro rise piano, suo malgrado.

«Dovrebbe ringraziare voi, non la hostess» osservò, indicando il contatore dell’ossigeno.

Anche Pat sorrise. Era vero; ora che aveva alzato la pressione della cabina, l’acqua bolliva quasi alla temperatura normale, come sulla Terra.

Se non altro, si potevano avere delle bevande calde, invece delle solite brodaglie appena tiepide. Ma sembrava un modo alquanto dispendioso di preparare il tè non dissimile dal famoso metodo cinese di arrostire il maiale dando fuoco alla casa.

«Il nostro problema più urgente» disse il commodoro (e Pat non si offese affatto di quel «nostro») «è tenere alto il morale. E un discorsetto del capitano sulle operazioni di ricerca che stanno per cominciare, farebbe buona impressione, credo. Ma non mostratevi troppo ottimista; non dovete dare l’impressione che tra una mezz’ora al massimo sentiremo bussare alla porta dello scafo. Uno stato d’animo del genere può avere conseguenze molto pericolose se… be’, se ci toccherà aspettare per diversi giorni.»

«Non ci metterò molto a descrivere l’organizzazione SoccorsiLunari» rispose Pat. «Che tra l’altro, resti tra noi, non è stata certo attrezzata per fronteggiare un incidente del genere. Quando una nave si guasta sopra la superficie lunare, può essere localizzata in brevissimo tempo da uno dei satelliti: o dal Lagrange II, che si trova dal lato Terra, o dal Lagrange I, che gravita dalla parte opposta. Però, nel nostro caso, dubito che possano aiutarci; come vi dicevo, probabilmente siamo sprofondati senza lasciare traccia.»

«Sembra impossibile. Sulla Terra, quando una nave affonda, qualche traccia prima o poi viene a galla.. non so, macchie d’olio, rottami…»

«Nel nostro caso non può succedere. E non so nemmeno immaginare in che modo potremmo mandare qualcosa alla superficie… anche se sapessimo quanto è distante da noi.»

«Insomma non possiamo fare altro che incrociare le braccia e aspettare.»

«Già» approvò Pat. Poi lanciò un’occhiata all’indicatore della riserva d’ossigeno. «E c’è una sola cosa di cui siamo sicuri: che non possiamo aspettare più di una settimana.»

Cinquantamila chilometri al di sopra della Luna, Tom Lawson posò l’ultima delle fotografie scattate. Aveva esaminato ogni millimetro quadrato di quelle foto con la lente d’ingrandimento; erano fotografie ottime. L’intensificatore elettronico di immagini, milioni di volte più sensibile dell’occhio umano, aveva rivelato con estrema chiarezza i più piccoli particolari, dato che laggiù, su quella distesa lievemente scintillante, era ormai giorno. Lawson aveva localizzato perfino una delle piccole slitte da polvere, o meglio, la lunga ombra che essa proiettava. Eppure, non c’era nessuna traccia del Selene; il Mare della Sete era liscio e calmo come sempre.

Tom non amava darsi per vinto nemmeno in cose meno importanti di questa. Era persuaso che tutti i problemi si possono risolvere, purché siano affrontati nel modo giusto e con gli strumenti adatti. Il ritrovamento del Selene era una sfida alla sua ingegnosità di scienziato; il fatto che da quel ritrovamento dipendessero molte vite umane contava fino a un certo punto per lui. Tom Lawson aveva poca considerazione per i suoi simili, mentre ne aveva moltissima per l’Universo. E qui si trattava di una lotta personale tra l’Universo e lui.

Considerò la situazione con intelligenza freddamente critica. In che modo il grande Sherlock Holmes avrebbe affrontato il problema? (Era caratteristico il fatto che uno dei pochi uomini ammirati da Lawson non fosse mai esistito.) Eliminato il mare aperto, restava una sola possibilità: il battello doveva essersi bloccato o lungo la costa o nei pressi delle montagne, probabilmente nella zona… (Tom confrontò la carta)… nella zona chiamata Lago del Cratere. Logico, del resto; un incidente, era più probabile che capitasse qui che sulla pacifica distesa del mare.