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«Señor Lime?» domandò uno.

Rimasi in silenzio qualche istante.

«È in arresto» mi informò l’altro, mentre il primo si portò alle mie spalle, mi afferrò le braccia e con gesto fulmineo fece scattare le manette attorno ai miei polsi. Protestai e ripetei che esigevo spiegazioni ma quelli rimasero in silenzio.

4

Diversi isolati ci separavano dal vecchio, massiccio edificio rosso che ospitava la sede centrale dei servizi segreti e della polizia di Puerta del Sol. I due agenti sequestrarono il cellulare e la piccola Leica che portavo sempre con me e mi fecero salire sul sedile posteriore di una grossa Seat bianca, stretto tra altri due agenti in borghese. L’autista mise in moto senza una parola. Come gli altri due portava i capelli tagliati cortissimi, alla maniera dei soldati. “Maledetto ministro” pensai.

La stessa situazione qualche decennio prima, quando i poliziotti spagnoli erano notoriamente inclini a estorcere confessioni a suon di botte, mi avrebbe gettato nel panico. Ma quei tempi bui erano ormai lontani, anche se i baschi sostenevano che la polizia spagnola non avesse perso le sue cattive abitudini. Domandai quale fosse la causa del mio arresto, ma di nuovo non ottenni risposta. Le manette mi stringevano i polsi e avevo il respiro accelerato. Oltre il finestrino la ricca, anarchica vita madrilena scorreva indisturbata, aumentando il mio senso di impotenza e di oppressione.

Il traffico era sempre più difficoltoso e procedevamo a sirene spente, così finimmo per rimanere imbottigliati. Ma se anche ci fosse stato lì attorno qualcuno che conoscevo, i finestrini fumé gli avrebbero impedito di vedermi. Dissi che volevo telefonare al mio avvocato. Nessuno replicò. Sapevo dell’esistenza di un articolo della legge antiterrorismo che avrebbe consentito loro di trattenermi per quarantotto, forse addirittura settantadue ore anche in assenza di qualunque specifico capo d’imputazione a mio carico. Di nuovo maledissi tra me il ministro e quelle fottutissime foto. Evidentemente quel porco era disposto a darsi un bel da fare per impedire che la sua felicità familiare e la sua carriera venissero distrutte da un qualsiasi Peter Lime. A Puerta del Sol la Seat girò a sinistra costeggiando la centrale di polizia, superò due guardie armate di mitragliatrice ingoffite dai giubbotti antiproiettile ed entrò nel cortile. Mi fecero scendere e attraversai il cortile fino a una bassa porta secondaria. Percorremmo un corridoio scuro, scendemmo una rampa di scale, poi un altro lungo corridoio fino a una stanza piuttosto grande al cui centro campeggiava una vecchia scrivania. Vi era seduta una guardia in uniforme grigia. Sul ripiano scheggiato e coperto di macchie era aperto un giornale sportivo con accanto una tazzina da caffè vuota. Al nostro ingresso la guardia si alzò per precederci lungo un ennesimo corridoio illuminato da potenti lampadine protette da gabbiette metalliche. Su entrambi i lati, a distanze regolari, si aprivano le porte dipinte di azzurro delle celle. La guardia si fermò davanti alla quarta porta e l’aprì. Con un gesto brusco, uno dei due agenti alle mie spalle mi tolse le manette. Stavo per protestare, quando lo stesso agente mi afferrò per il codino e tirò con forza, quindi mi scaraventò dentro la cella con una potente spinta tra le scapole.

Caddi bocconi sul pavimento della cella mentre la porta cigolante veniva chiusa a doppia mandata.

Il sangue formicolava nelle mie mani intorpidite. Tutto intorno a me era silenzio, quasi che la stanza fosse insonorizzata. Mi colse il sospetto di trovarmi in una delle vecchie celle di tortura usate sotto il franchismo. Se avevano intenzione di spaventarmi ci stavano riuscendo benissimo. Per fortuna potevo contare su Oscar e Gloria. I miei due amici nutrivano un’antipatia inveterata per lo stato, la polizia e i loro metodi fascisti: avrebbero fatto fuoco e fiamme per tirarmi fuori di lì. Inizialmente si sarebbero serviti delle vie e dei diritti previsti dalla legge, ma se si fosse reso necessario non avrebbero esitato a usare le foto pornografiche del ministro e della sua amante come strumento di pressione.

Quel pensiero mi rincuorò vagamente, mentre a fatica mi rimettevo in piedi e raggiungevo il tavolaccio accostato a una delle pareti. Ero vittima di un tentativo di intimidazione. Che prove potevano avere contro di me? Non avevano nemmeno seguito la procedura che prevedeva che fossi fotografato e si rilevassero le mie impronte digitali.

Dal soffitto pendeva una lampadina anch’essa chiusa in una gabbia metallica. Le pareti, nude e color giallo sporco non riportavano scritte né incisioni. Un buco in un angolo fungeva da gabinetto. C’erano un lavandino sporco di ruggine e un tavolino fissato al muro con dei bulloni. Ai piedi del tavolaccio su cui sedevo giaceva una coperta lisa ripiegata. Non mi avevano tolto né la cintura, né il pettine, né i lacci delle scarpe. Forse non gli sarebbe importato se mi fossi suicidato. Probabilmente sarebbero stati addirittura contenti. Mi stesi supino, raccolsi le ginocchia contro il petto e provai a volgere lo sguardo all’interno. Gradualmente, il mio cervello si svuotò, il respiro si fece regolare, il dolore ai polsi e alle ginocchia si placò e percepii soltanto il puntino luminoso in mezzo ai miei occhi. Raggiunsi quel nada, o wa, che Suzuki mi aveva insegnato a trovare.

Quando verso sera vennero a prendermi, ero affamato e assetato, ma il mio spirito era tranquillo e battagliero. Erano gli stessi due agenti del pomeriggio, più un secondino grasso. Senza rimettermi le manette, gli agenti si limitarono ad afferrarmi saldamente per i gomiti. Dissi loro che dovevo chiamare un avvocato oppure casa, ma non risposero. Mi condussero in una stanza al piano superiore e mi sistemarono contro una parete bianca.

Era arrivato il momento delle foto e delle impronte. Tutto si svolse in silenzio eccetto che per le istruzioni seccamente impartite da uno degli agenti. Poi mi portarono in una minuscola aula, di fronte al giudice incaricato di stabilire se fosse stato commesso un crimine, se ci fossero le basi per aprire un’indagine sul mio conto o se invece dovessi essere rilasciato.

Il giudice istruttore era un uomo di mezza età. Mi guardava al di sopra di un paio di occhiali da lettura che teneva appollaiati sul naso, che era grosso e sovrastato da due spesse sopracciglia grigie e irsute. Era corpulento e cercava di nascondere i chili di troppo con un abito scuro di buon taglio.

La stenografa evitò di incrociare il mio sguardo.

Gli agenti mi indicarono una sedia e quando fui seduto rimasero in piedi alle mie spalle. Di fronte a me il giudice si avvalse del suo diritto di guardarmi dall’alto in basso, scartabellò tra i documenti che aveva davanti e mi chiese se mi chiamassi Peter Lime, se fossi in possesso del permesso di soggiorno numero tot, e se ero residente in Plaza Santa Ana a Madrid. E se comprendessi la lingua spagnola. Risposi di sì a tutte le domande sforzandomi di mantenere la calma. Una volta confermata la mia identità, dissi:

«Non mi è stato concesso di parlare con un avvocato. Da quando sono stato arrestato ingiustamente non mi hanno dato né pane né acqua. La mia famiglia sarà certamente in preda all’angoscia, si starà chiedendo che fine ho fatto».

Il giudice impassibile replicò:

«Si limiti a rispondere alle domande».

Abbassò brevemente gli occhi sui documenti.

«Si trovava a Llanca, Catalogna, il 3 di giugno.» Poiché la frase era risuonata come un’affermazione piuttosto che una domanda, rimasi in silenzio.

«Ripeto, era a Llanca, in Catalogna, il 3 giugno corrente mese?» Ero nei guai. Il ministro, mi dissi, aveva tentacoli lunghissimi. E mi aveva consegnato nelle mani di un giudice ostile. La sensazione di non avere controllo sulla mia vita mi dava la nausea, mi faceva girare la testa.