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«Calvo Carrillo» si presentò quello della sigaretta. «Il mio collega si chiama Santiago Sotello. Stia tranquillo, non c’è motivo di spaventarsi.» La mia aria assorta doveva essergli parsa, forse non a torto, un tentativo di dissimulare paura anche a me stesso.

«Che ne dice di parlare un po’ d’affari, Pedro? Potremmo riuscire a risolvere questa faccenda in modo civile. In fondo siamo uomini adulti. Siamo abituati a muoverci nel mondo e non abbiamo tempo da perdere.»

Continuai a fumare senza aprir bocca, limitandomi a contemplare i suoi strani occhi smorti, simili a quelli di un bambolotto.

Calvo Carrillo continuò:

«Questa storia può diventare seria…»

«Non avete elementi per accusarmi» ribattei.

«Ma potremmo causarle parecchi fastidi. Forse fra un paio di giorni uscirà. Ma potrebbe finire dentro di nuovo. Ogni volta che ci sarà un omicidio di matrice terroristica, tornerà qui per un bell’interrogatorio. Ci aveva pensato?»

Annuii. Sapevo benissimo che diceva la verità. Erano nella posizione di rendermi la vita molto difficile. Quasi mi leggesse nel pensiero, riprese a elencare le possibili vessazioni che uno stato forte e moderno poteva legittimamente infliggere ai suoi cittadini, o, meglio ancora, ai suoi non-cittadini, come nel mio caso.

Fece un passo avanti.

«Lei è uno straniero nel nostro paese, ma ha imparato la nostra lingua, conosce e apprezza la nostra cultura. La Spagna le piace, non è vero? E se improvvisamente non le riuscisse di ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno? Saremmo costretti a ritirarle anche il permesso di lavoro. Poi c’è il fisco. Anche quello può essere fonte di parecchie grane: ispezioni, revisioni, perquisizioni, controlli incrociati. Capisce ciò che sto cercando di dirle?»

«Chissà, la Chiesa potrebbe decidere di scomunicarmi…»

Carrillo sorrise. Il gorilla sembrava indignato dalla mia tracotanza. Aveva in mano un tubo di gomma sicuramente imbottito di ferro, e prese a batterselo ritmicamente contro la coscia: era pronto a usarlo, se non mi fossi mostrato ragionevole. Evidentemente i miei due amici avevano fretta.

«No. Non credo che la Chiesa possa fare granché, ma le indagini potrebbero estendersi anche a familiari e amici» disse senza ironia.

«Lasciate mia moglie fuori da questa storia.»

«Una volta messa in moto, la macchina cammina.»

«Però la si può fermare, no?»

«Sì, certo.»

«E chi mi garantisce che dopo non torni a mettersi in moto?» domandai.

Mi guardò con espressione sollevata. Avevamo aperto una trattativa. Da buon tirapiedi di un esperto uomo politico, preferiva compromessi e ricatti alla violenza esplicita.

«Vogliamo i negativi e le foto. Anche se non avremo mai la garanzia che lei non ne abbia nascosto qualcuno.»

«Infatti.»

«Ma non importa. Capisco che in una società moderna è importante avere una polizza d’assicurazione che copra gli imprevisti.»

«Lei è una persona intelligente» dissi.

Non afferrò la nota di sarcasmo nella mia voce, oppure preferì far finta di nulla. Sapevo già che avrei accettato la proposta. In fondo che significava tutta quella storia per me? Significava che avrei dovuto ingoiare un po’ d’orgoglio, tutto qui. Le foto che mi avevano cacciato in quel pasticcio non erano opere d’arte, ma immagini nate per stuzzicare la curiosità e la fame di pettegolezzi della gente.

«Quando posso uscire?» domandai.

Lui esitò.

«Tra ventiquattro ore. Forse un po’ prima.»

«E perché non subito?»

«Dovremo far in modo che le formalità vengano rispettate e quindi farla rilasciare dal giudice. Per dirla chiaramente, abbiamo fatto qualche pressione su di lui perché la mettesse in prigione. Non credo sia il caso di sottoporlo a ulteriori pressioni.»

«Vuol forse dire che quell’uomo prende la sua carica sul serio?» chiesi.

«Forse.»

«Questa faccenda mi puzza.»

Il piccoletto mosse qualche passo su e giù per la cella. Guardandolo camminare vidi chiaramente quanto poco spazio avessi a disposizione. Sapevo che sarei impazzito se fossi rimasto da solo per mesi in una cella tanto angusta.

«Come faccio a farvi avere le foto? Sono in isolamento.»

«A questo si può rimediare. Domani mattina le metteranno a disposizione un telefono. Le daranno giornali, una radio, un televisore, tutto il cibo e le ore d’aria che vorrà. Ma il procedimento avviato nei suoi confronti potrà essere sospeso solo dalle autorità competenti.»

Allargò le braccia. Come a dire: questi sono i patti, non ho altro da aggiungere, non posso spingermi oltre.

«Okay» dissi.

«Accetta l’accordo?»

Adesso sembrava sorpreso, ma che si aspettava? Che mi mettessi a urlare? Che pretendessi di essere rilasciato immediatamente? Conoscevo il suo mondo abbastanza bene da sapere che era venuto con una proposta che era tale solo di nome, prendere o lasciare.

«Sì.»

«È un piacere trattare con lei» disse tendendo la mano. La strinsi. Mi lasciò le sigarette e l’accendino. I due se ne andarono augurandomi la buona notte e informandomi che ci saremmo rivisti l’indomani. Fumai un’altra sigaretta prima di distendermi supino sul tavolaccio e addormentarmi. Non ero del tutto soddisfatto di me stesso, sebbene probabilmente quella fosse la soluzione migliore. Oscar ci sarebbe rimasto un po’ male per i soldi, ma sicuramente avrebbe capito che le foto di un caprone e una bella attricetta italiana non valevano tutti i fastidi che ci saremmo procurati se le avessimo rese possibili. Avevamo perduto una battaglia. Ne avremmo vinte altre. O forse quella faccenda mi avrebbe fornito l’occasione di abbandonare per sempre l’aspetto meno nobile della mia professione. Di abbandonare la carriera di paparazzo.

In realtà ci pensavo da parecchio, almeno da quando mia figlia aveva cominciato a parlare. Perché in fondo mi ripugnava l’idea di campare della vulnerabilità della gente. Avrei potuto concentrarmi sui ritratti e fare un reportage giornalistico di quando in quando. Certo, si trattava di attività meno redditizie, ma la mia famiglia aveva abbastanza denaro. Vendendo la mia quota dell’agenzia, avrei potuto permettermi di non muovere un dito per il resto dei miei giorni, se avessi trovato un consulente finanziario in gamba. Provavo un senso di sollievo. Forse non avevo preso una decisione definitiva, ma avevo fatto un passo nella direzione giusta. Non sospettavo che il destino si sarebbe incaricato di rimescolare le carte.

L’indomani mattina c’era una nuova guardia carceraria, più giovane di quella del giorno precedente. Mi portò caffelatte, pane, burro, i giornali del mattino, una radio. E un telefono portatile: evidentemente le celle non erano completamente isolate come avevo ipotizzato. O forse erano dotate di un sistema di insonorizzazione che era stato disattivato.

Infatti, percepivo adesso qualche suono proveniente dall’esterno: dei colpi, un fruscio, un tintinnio, una voce. Oppure quello era un telefono speciale. Quasi certamente si poteva usare solo per chiamare, e da qualche parte due orecchie governative erano in attesa di ascoltare la mia conversazione. La nuova guardia carceraria specificò che il telefono costituiva una grave violazione del regolamento, ma aveva ricevuto l’ordine di lasciarmelo per un quarto d’ora, poi sarebbe tornato a riprenderlo.

Telefonai immediatamente ad Amelia. Rispose al primo squillo e quando sentì la mia voce scoppiò a piangere. Non doveva aver chiuso occhio, ma era una donna forte e coraggiosa e si sforzò di controllarsi in modo che potessimo parlare. Le dissi che stavo bene e sarei tornato entro ventiquattr’ore. Le spiegai in breve la situazione e l’accordo che avevamo raggiunto.

«La danese ha chiesto di te» disse.