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Mi ritrovai in mano un altro bicchiere colmo d’acqua e Oscar ruppe il silenzio:

«Come stai?».

«Per l’amor del cielo, Oscar! Come vuoi che stia?» esclamò Gloria.

«Voglio sapere cosa è accaduto», pronunciai in tono innaturalmente calmo.

Il giudice si schiarì la gola.

«Señor Lime» disse porgendomi un foglio. «Le mie condoglianze. Qui ci sono i documenti per il suo rilascio. Il caso si chiude qui. Ha il diritto di intentare una causa per danni allo stato spagnolo per arresto e detenzione illegittimi. Le metto a disposizione il mio ufficio per conferire in pace con i suoi amici. Di nuovo, le più sentite condoglianze. Per favore, prima di andare, firmi qui.»

E con questo lasciò la stanza.

«Cosa è successo?» chiesi di nuovo. Ascoltai in silenzio e a occhi asciutti il resoconto di Gloria. Intorno all’una e mezzo del mattino nel nostro appartamento si era verificata una violenta esplosione. L’incendio che era seguito si era rapidamente propagato al resto del palazzo. Il tetto era crollato, tutti gli appartamenti devastati. Finora erano stati recuperati tredici corpi. Le due famiglie del piano di sotto erano riuscite a scappare insieme a quelle del terzo piano. I cadaveri erano stati portati all’istituto centrale di medicina legale e la polizia aveva avviato le indagini. Per il momento l’ipotesi era che si fosse trattato di un’esplosione di gas provocata da un vecchio tubo difettoso.

«Siete assolutamente certi che fossero in casa?» domandai.

«Purtroppo sì, Peter» rispose Gloria.

«Voglio vederle» sussurrai.

«Possiamo andarci subito» disse Oscar cupo. «Ma sarà straziante e…» non seppe continuare.

Accese una sigaretta e me la infilò in bocca. Mi circondò le spalle con un braccio e restammo seduti così, senza parlare, per qualche minuto. Fumavo meccanicamente e cercavo di convincermi del fatto che Amelia e Maria Luisa mi fossero state portate via. Davvero e per sempre. Non erano morte, no. La parola “morte” era troppo neutrale, descriveva un fatto naturale, inevitabile. Prima o poi la morte arriva per tutti. Mia moglie e mia figlia mi erano state rubate, rapite, ingiustamente, inspiegabilmente.

Il vuoto, il dolore e la rabbia montavano dentro di me togliendomi il fiato.

La grossa Mercedes 600 di Oscar era parcheggiata nel cortile della centrale. Mi sedetti accanto a Gloria sul sedile posteriore e Oscar mise in moto. Il poliziotto di guardia azionò la sbarra e uscimmo in strada. Era la libertà, ma libertà di cosa? Di tornare alla bottiglia? Di essere infelice per il resto dei miei giorni?

Davanti all’ingresso dell’edificio un drappello di fotografi e cronisti ci stava aspettando.

«Cosa significa?» domandai scioccamente mentre Oscar frenava bruscamente per non investire la folla.

«Quando abbiamo cominciato a telefonare in giro non ci è stato possibile evitare che la notizia del tuo arresto si spargesse. Circolano voci sulle foto del ministro…»

Le telecamere e gli obiettivi quasi toccavano i finestrini, come volessero accarezzarli. I giornalisti gridavano le loro domande: come stavo? Avevo commenti da fare? Pregavano che dicessi qualcosa, qualunque cosa! Centinaia di volte avevo visto una delle mie prede, innocente di qualunque crimine, cercare di sottrarsi alla curiosità della gente, coprirsi il viso con le mani. Quasi che l’assalto all’intimità generasse in chi lo subiva un senso di colpa spontaneo quanto immotivato. Ma io ero troppo infelice per avere reazioni di sorta. Mi sentivo semplicemente finito.

«Oscar, portami a Santa Ana» dissi.

«Là ci sarà ancora più gente.»

«Non discutere, Oscar. Fai quello che dice» intervenne Gloria.

«Okay.»

Suonò il clacson e avanzò cauto tra la folla di giornalisti, che si aprì come il mare davanti alla prua di una nave. I più solerti rincorsero l’auto per un tratto. Appena ebbe via libera, Oscar accelerò e in pochi minuti arrivammo a Plaza Santa Ana.

La piazza era transennata. Gli agenti ci fermarono, ma quando Oscar spiegò loro chi fossi ci fecero subito passare. Parcheggiò sul marciapiede e scendemmo dall’auto. Quattro grossi mezzi antincendio erano fermi davanti al mio palazzo. I lampeggianti azzurri parevano guizzi di fuochi d’artificio nella luce bianco-grigia del mattino. L’aria era fresca e il cielo coperto. C’erano diverse auto della polizia, e il lastricato della piazza era striato di rivoli d’acqua nera. Simili a ombre dell’inferno, i pompieri s’aggiravano per quella che fino a poche ore prima era stata la mia casa.

L’aria era impregnata di fumo e di un insostenibile lezzo di morte. S’udivano sibili, radio gracchianti e il crescendo delle voci di quanti, sul luogo di una disgrazia, dapprima tacciono sconvolti, poi cominciano a mormorare fra loro sempre più fittamente, incapaci di nascondere il sollievo, l’eccitazione di esserci, di esistere ancora.

Mi diressi verso quel che restava del mio appartamento mentre cronisti e fotografi mi correvano incontro. Anche se raramente firmavo le mie foto, nell’ambiente il mio volto era conosciuto. Con gli obbiettivi delle macchine puntati addosso come tanti bazooka, raggiunsi una transenna da dove potevo guardare dentro il palazzo incenerito.

Il puzzo e il calore mi colpirono in viso facendomi avvampare. Seppi che i fotografi si erano assicurati un buono scatto quando le lacrime cominciarono a solcarmi le guance. Non riuscivo a riconoscere nulla. Era come se una bomba avesse mandato in frantumi le viscere della mia casa. Intorno a me continuava la pioggia di domande. A malapena le udivo.

A un tratto mi si parò di fronte Felipe Pujol, un catalano piccolo e tozzo che faceva la cronaca nera per «El Mundo».

«Pedro? Come stai? Perché ti hanno arrestato?» Non risposi.

«Levati dai coglioni, Felipe!» disse Oscar alle mie spalle.

Felipe non gli badò. Mi venne talmente vicino che per poco non mi pestò i piedi e inchiodò lo sguardo al mio. Potevo sentire il suo odore. Quella mattina, insieme al caffè si era concesso un brandy.

Disse:

«Ho saputo che stavi per sputtanare un ministro. È questa la ragione di tutto questo casino? Dai, Pedro, parla! Accidenti, sei del mestiere. Dammi la storia! Potrà essere utile anche a te. È vero che hai scattato una serie di foto piccanti? “El Mundo” vuole l’esclusiva».

Gli sferrai una ginocchiata nelle palle e lui si ripiegò su se stesso senza emettere il benché minimo suono, mentre sul suo volto si dipingeva un’espressione sofferente e sbigottita. Girai i tacchi e, servendomi di Oscar come frangiflutti, mi feci largo tra la folla di fotografi, giornalisti e telecamere. C’era anche la troupe della «TV del Mattino», un contenitore di tragedie, pettegolezzi, scandali, ricette di cucina e bollettini del traffico. Dovevano essere in diretta. Oscar, grosso com’era, faticò ad aprirsi un varco mentre io lo seguivo come in trance. Tutto mi sembrava un sogno, confuso e lattiginoso, da cui mi sarei svegliato di lì a un istante, quando avrei teso la mano e accarezzato la schiena di Amelia addormentata accanto a me, il suo morbido sedere a pochi centimetri dal mio ventre.

Alcuni poliziotti ci circondarono scortandoci verso la macchina dove Gloria aveva preso posto dietro il volante. Oscar si sedette accanto a me sul sedile posteriore.

«Maledetti sciacalli.»

«Sciacalli e colleghi» sottolineò Gloria con voce cupa.

«Voglio bere qualcosa» dissi.

«Okay» rispose Oscar.

«No!» disse Gloria.

Non ricordo nient’altro del tragitto verso Amelia e Maria Luisa.

So che più tardi mi ritrovai davanti a due corpi coperti da un lenzuolo dentro una stanza rivestita di sterili piastrelle. Il medico, o poliziotto, scostò il lenzuolo. Entrambe avevano i capelli coperti come da una cuffia da bagno. No, i capelli non c’erano più. Il viso bruciato di Amelia era praticamente irriconoscibile. Maria Luisa aveva pochi segni di ustione, ma era coperta di fuliggine e aveva una grossa vescica sulla guancia. Quando notai che non aveva più le ciglia, scoppiai in un pianto disperato.