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«Sono sua moglie e sua figlia?» domandò l’uomo con il camice bianco.

«Sì.»

«Vorrei il suo consenso per effettuare l’autopsia.»

«Perché?»

A rispondere fu un uomo di mezza età che indossava un abito di buon taglio.

«Ne ho fatto richiesta, Señor Lime.»

Era in piedi in un angolo della stanza e fino a quel momento non lo avevo notato. Gloria e Oscar erano rimasti sulla porta, pallidi come spettri. Gloria si era infilata una felpa che doveva aver trovato in macchina e aveva i capelli scarmigliati come se fosse appena scesa dal letto.

«Rodriguez, squadra omicidi» disse l’uomo elegante mostrando il distintivo. Aveva mani esili e brune. Notai un piccolo anello con diamante e la fede. Gloria fece un passo avanti per proteggermi, ma io alzai la mano per indicare che il suo intervento non era necessario.

«Non sono in grado di prendere una decisione adesso» dissi.

«E quando? Presto dovrà fissare il funerale» insisté lui.

Era vero. In Spagna seppelliscono i morti molto in fretta, non aspettano anche una settimana, come accade in Danimarca. È un’usanza che risale ai vecchi tempi, quando i cadaveri non potevano rimanere esposti al caldo torrido. E poi, a differenza di noi danesi, i cattolici si preoccupano dell’anima più che della carne.

«Perché l’autopsia?» domandai ancora.

Lui fece un passo avanti e infilò un paio di guanti da chirurgo sulle mani affusolate. Con delicatezza girò la testa sfigurata di Amelia. Mi assalì un senso di nausea, ma non avevo più niente nello stomaco. Puntini luminosi danzavano davanti ai miei occhi.

«Guardi qui, Señor Lime» facendo scorrere l’indice guantato lungo il collo di Amelia, mi indicò due piccoli affossamenti.

Rodriguez continuò:

«Vede? Né io né il patologo riusciamo a spiegarci il perché di questi segni. Farebbero pensare a un tentativo di strangolamento. Oppure potrebbe essere rimasta impigliata in un cavo… Dobbiamo stabilire se risalgano a prima o dopo l’incendio, capisce? Era già morta quando è scoppiato l’inferno? Si è trattato di una tragica fatalità oppure stiamo parlando dell’omicidio di tredici persone? Ci dia l’autorizzazione a procedere con l’autopsia. Altrimenti saremo costretti ad andare per vie legali».

Il tempo si fermò. Mi voltai verso Gloria e Oscar:

«Vendete le maledette foto» dissi, poi tutto si fece nero.

Parte Seconda

6

Che il tempo guarisca ogni male è una grande fandonia. Il tempo non guarisce un bel niente, lenisce il dolore come una pasticca calma un brutto mal di testa. Il dolore acuto e insopportabile si trasforma in un tormento continuo, che ci assedia anche di notte, quando il sonno tarda ad arrivare.

Il periodo che seguì la morte di Amelia e Maria Luisa fu terribile, caotico e sconcertante. Persi il controllo degli eventi quasi fossi ridiventato un bambino costretto a dipendere dalle cure e dalle decisioni dei grandi. Persone benintenzionate si fecero carico della mia vita e mi guidarono attraverso l’oscurità del tunnel, fino al chiarore di un sole debole e malaticcio. Gloria e Oscar si occuparono con l’abituale efficienza delle cose di carattere pratico. Dell’assicurazione, della causa per danni contro lo stato spagnolo e della vendita delle foto del ministro, che fecero il giro del mondo e ci fruttarono una piccola fortuna. Il risarcimento dell’assicurazione fu ingente, ma il valore artistico e affettivo dei miei negativi bruciati non poteva essere ripagato. Gli armadietti in materiale “ignifugo” erano stati distrutti dalle fiamme e l’instancabile Gloria fece causa anche alla casa produttrice.

I media, intanto, imperversavano. Le foto piccanti del ministro e la dichiarazione ufficiale secondo la quale l’incendio era di origine dolosa scatenarono sul caso una violenta tempesta mediatica.

Secondo i risultati dell’autopsia, Amelia era morta strangolata prima che divampasse l’incendio. Maria Luisa era morta asfissiata dai gas di combustione. Il resto delle vittime aveva perso la vita nell’incendio. Nel nostro appartamento erano state rinvenute tracce di esplosivi.

Di fronte alle velate allusioni della stampa, il ministro negò recisamente qualunque responsabilità e coinvolgimento nella tragedia di Plaza Santa Ana. In ogni caso fu costretto a dare le dimissioni: le foto scabrose erano incompatibili con l’immagine pubblica del membro di una coalizione di governo che faceva dei valori tradizionali la propria bandiera.

Il commissario Rodriguez brancolava nel buio. Di quando in quando veniva a ragguagliarmi sulle scarse novità emerse dalle indagini. Un unico testimone aveva visto due uomini lasciare l’appartamento poco prima che l’esplosione facesse saltare i vetri del palazzo. Erano piuttosto muscolosi e avevano i capelli neri come milioni di spagnoli. Si erano allontanati in direzione di Puerta del Sol. Più o meno era tutto. Rodriguez credeva possibile che si trattasse di un attentato dell’ETA diretto contro il bersaglio sbagliato. Nel palazzo viveva infatti, sotto falsa identità, una donna affidata al programma protezione testimoni dei servizi segreti, Carmen Arrese. Era basca e dieci anni prima aveva testimoniato contro l’ETA. A motivare il suo gesto era stata una delusione amorosa: uno dei capi l’aveva lasciata.

«Alla fine i suoi vecchi compagni l’hanno scovata, Señor Lime» disse Rodriguez. «Non si scappa dal passato.»

Eravamo alla Cervecería Alemana, seduti al tavolo di Hemingway davanti a un paio di caffè. Felipe, il vecchio cameriere, vigilava su di me quasi fossi una porcellana fragile. Continuavo a frequentare l’Alemana, nonostante fosse proprio di fronte a quello che un tempo era stato il mio palazzo: adesso era uno squarcio nell’architettura della piazza, per il resto uguale a sempre nella luce del tardo pomeriggio. I vecchi sulle panchine chiacchieravano e leggevano il giornale, presto i bambini sarebbero tornati da scuola e avrebbero cominciato a giocare. La birreria Alemana era stata il mio primo rifugio a Madrid. Anche se guardare al di là della piazza mi faceva l’effetto di un pugno allo stomaco, quel posto rappresentava per me un cordone ombelicale con un passato al quale pensavo sempre più spesso. Non volevo dimenticare Amelia e Maria Luisa. Il loro ricordo era fatto di gioia, nostalgia e un dolore lancinante, ma era l’unica cosa che mi restava.

«Crede davvero a questa storia dell’ETA?» chiesi.

«Tutte le altre piste non hanno portato a nulla. I terroristi sono molto attivi. Non dimenticano mai una spia, e i colleghi dei servizi segreti hanno saputo da certi informatori che la sua vicina era stata rintracciata e che intendevano eliminarla. L’esplosivo è un vecchio prodotto cecoslovacco, il semtex. Ce n’è ancora una gran quantità in circolazione. Potrebbero averlo avuto tramite l’IRA, o dai vecchi amici della DDR.»

Allargò le braccia.

«Come avrebbero potuto commettere un errore così clamoroso?» domandai.

«Carmen Arrese somigliava vagamente a sua moglie, Señor Lime.»

Carmen aveva circa trentacinque anni e abitava con il marito, suo coetaneo, nell’appartamento sotto il nostro. Lui era avvocato. Erano morti entrambi, insieme alla figlia, che aveva la stessa età di Maria Luisa.

«Carmen aveva un accento andaluso» dissi. «Neanche l’ombra di un’inflessione basca.»

«I suoi genitori stavano a Siviglia, ma lei era nata a Pamplona. Per prepararla alla sua nuova vita le avevamo insegnato la lingua della sua infanzia. Neanche il marito era al corrente della verità.»