«Era di dieci anni più giovane di mia moglie.»
«Señor Lime. Sua moglie, che Dio la benedica, era una bella donna. Avrebbe potuto benissimo passare per una trentacinquenne. Carmen invece in realtà era più vecchia. Siamo stati noi a ringiovanirla nel fornirle una nuova identità. Forse i terroristi hanno preso un abbaglio. Sono entrati nell’appartamento sbagliato e hanno strangolato la donna sbagliata prima di collocare la carica esplosiva.»
«Ma perché far saltare in aria tutto il palazzo?»
«Un altro errore: hanno usato una carica troppo potente. Siamo convinti che fossero inesperti. O forse c’è stata anche una fuga di gas. Non avevano intenzione di colpire sua moglie, ma l’inquilina del piano di sotto. Mi dispiace.»
«Quindi il caso sarà archiviato» dissi.
Lui raddrizzò la schiena.
«Al contrario. Se ne occuperanno gli organi competenti. Lei sa quanti mezzi lo stato impieghi nella lotta contro i terroristi. Lo sforzo sarà intensificato, glielo posso assicurare. Io indago su omicidi il cui movente è il sesso, l’avidità, la gelosia, l’alcolismo… Salvaguardare la sicurezza dello stato spetta ad altri.»
Mi guardò con espressione contrita. Lo stato aveva preso una pentita dell’ETA, una vera bomba a orologeria, e l’aveva piazzata nell’appartamento sotto quello mio e di Amelia. Senza sognarsi di avvertirci del rischio a cui quella mossa ci esponeva.
Rodriguez si alzò, mi strinse la mano e ringraziandomi per la collaborazione mi rinnovò le condoglianze. Io decisi di trattenermi ancora un po’ e presi un altro caffè mentre guardavo la luce sopra la piazza tingersi di blu. La birreria andò progressivamente riempiendosi di studenti provenienti dai vari istituti del circondario, avevano i libri sotto il braccio e lo sguardo pieno di fede nelle infinite possibilità del futuro. Io sedevo da solo davanti alla finestra, da lontano Felipe continuava a vigilare su di me.
Per la settimana successiva alla tragedia avevo approfittato dell’ospitalità di Oscar e Gloria. Non appena le salme ci erano state riconsegnate, mio suocero e io avevamo organizzato i funerali. Fino a quel momento, il rapporto fra me e Don Alfonso era stato piuttosto freddo, soprattutto a causa delle nostre divergenze politiche, ma il lutto ci avvicinò senza che fossero necessari gesti o parole. Alfonso era un ometto ricurvo il cui aspetto ricordava quello di Franco da vecchio. Aveva servito il Caudillo per venticinque anni, in qualità di ufficiale della guardia civile e capo di una branca dei suoi ramificatissimi servizi segreti. Come tanti altri, dopo la fine della dittatura era passato alle dipendenze del governo di transizione e poi della democrazia. Se le sue mani erano sporche del sangue delle vittime delle torture, era riuscito a tenerlo nascosto, un fatto tutt’altro che raro nella Spagna della riconciliazione.
Al funerale eravamo presenti solo Don Alfonso, Oscar, Gloria e io, ma fuori dal cimitero, sotto la fitta pioggia madrilena, gli obbiettivi dei fotografi ci aspettavano come tante bocche affamate. Le nuvole nere all’orizzonte erano lo sfondo perfetto per l’ultimo atto di una tragedia, il bagliore intermittente dei flash annegava in quello dei lampi. Facevo il paparazzo da sempre; adesso, ovunque andassi, ero a mia volta inseguito dai paparazzi. Il giorno successivo al mio rilascio, il mio viso bagnato di lacrime era apparso sulle prime pagine di tutti i tabloid e nelle sezioni di cronaca dei quotidiani più seri. Per una settimana avevo avuto l’impressione di avere una macchina fotografica sempre puntata addosso. Nonostante la sgradevolezza di quella sensazione, non provavo senso di colpa a causa della mia professione. Ero troppo impegnato a gestire la rabbia e il dolore della mia perdita, riuscivo a pensare solo a me stesso. Avevo sperato che, trascorso quel primo periodo, l’interesse dei miei colleghi sarebbe evaporato. Invece il branco dei fotoreporter mi aveva seguito anche al cimitero vicino a casa di mio suocero: chiamava il mio nome, faceva appello alla mia comprensione, mi implorava di collaborare, mi prometteva grosse cifre in cambio di un’intervista esclusiva. Le richieste che tante volte in passato avevo rivolto alle mie vittime risuonavano come un’eco nella cacofonia di voci che mi ronzava perpetuamente intorno.
Non so cosa disse il prete. Ricordo solo il tamburellare della pioggia sulla bara bianca nella quale Amelia e Maria Luisa giacevano vicine. Vi gettai sopra un fiore prima di allontanarmi sottobraccio a Don Alfonso, che, come me, sembrava aver esaurito le lacrime.
Ormai era luglio e quasi due mesi erano trascorsi da quel giorno nero e terribile. Nel frattempo mi ero trasferito nella villa che mio suocero possedeva in un paesino non lontano da Madrid. Là, ai piedi delle montagne, Don Alfonso trascorreva la sua vita di pensionato leggendo saggi sulla storia della guerra civile spagnola e coltivando pomodori e orchidee. Passavo ore nella mia stanza, seduto davanti alla finestra a contemplare le montagne, pensando a tutto e a niente. Alfonso mi faceva trovare qualcosa da mangiare, per il resto mi lasciava in pace. Il suo riserbo era un sollievo dopo le premure eccessive di Gloria. A volte lo accompagnavo nelle sue spedizioni nei dintorni, per esplorare le vecchie trincee risalenti all’assedio di Madrid del 1937-38, quando lui era giovanissimo. I soldati bambini non sono un’invenzione africana: all’epoca della guerra civile, molti ragazzi dell’età di Alfonso erano stati arruolati su entrambi i fronti.
Parlavamo poco, e comunque mai del nostro lutto. Non c’era niente da dire: era semplicemente intollerabile. Intorno a mezzogiorno ci fermavamo a mangiare pane e formaggio sull’erba. Avevo l’impressione che gradisse la mia compagnia. Di tanto in tanto mi offriva pezzi di ricordi. Indicava un nido di cicogne e diceva: «C’era anche al tempo della guerra. Io stavo laggiù e sparavo in direzione della città. Gli anarchici portavano al collo fazzoletti rossi. Era una cosa sciocca, perché li trasformava in facili bersagli, ma per loro era una sorta di divisa. Anche se erano contrari alle uniformi e alle mostrine. Per questo i comunisti li odiavano a morte. Si sbranavano a vicenda.»
Tutto ciò che facevamo e dicevamo aveva l’unico scopo di aiutarci ad ammazzare il tempo. Di fare in modo che il lento ticchettio dei secondi trascorresse, senza che i nostri tetri e ossessivi pensieri ci facessero perdere il lume della ragione. Non scattavo quasi più foto, non di esseri umani, almeno.
Per potermi spostare tra la casa di Don Alfonso e Madrid mi ero comprato una Honda 750. Al termine dei miei pomeriggi in città, pagavo il mio caffè alla Alemana e partivo insieme a migliaia di pendolari. Guidavo con incoscienza, saettando tra le macchine incolonnate. Oscar mi accusava di coltivare un desiderio di morte e io non mi curavo di smentirlo. Ma mi piaceva il vento che mi strapazzava i capelli, quando, uscito dai sobborghi, lanciavo la moto a tutto gas sulle stradine secondarie che portavano a casa di mio suocero.
Il giorno del mio incontro con Rodriguez, appena rientrato da Madrid, presi una Coca dal frigo, versai un bicchiere di rosé ben freddo per Alfonso e andai a sedermi sul terrazzo. Il silenzio era quasi assoluto. L’aria tremula e calda del giorno svaporava gradualmente nella limpida, luminosa volta celeste. Piccole luci spuntavano nel crepuscolo sopra la linea irregolare dell’orizzonte.
Don Alfonso si sedette con un «buenas tardes», si tolse il cappello e si asciugò la fronte abbronzata. Dopo qualche minuto ruppi il silenzio per raccontargli della conversazione con Rodriguez. Mi ascoltò senza interrompermi. Era difficile per me collegare l’immagine di quel vecchio dai modi pacati e taciturni a un passato di agente segreto al servizio del regime franchista.
Al termine del mio racconto, Alfonso cominciò a parlare con l’abituale lentezza.
«Bene, Pedro. Quella di Rodriguez è una storia verosimile. Tutti noi siamo ansiosi di trovare spiegazioni. Ma ogni indagine è come un iceberg. La punta è niente in confronto alla parte che resta nascosta alla vista.»