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Poi setacciai la casa a caccia di tracce fisiche della vita di Amelia e Maria Luisa. Vestiti, foto, lettere, giocattoli: bruciai ogni cosa. Aveva ragione Arregui, avevo paura dei fantasmi che quegli oggetti avrebbero evocato. A tormentarmi bastavano le mie memorie, gli odori, tutto ciò che di intangibile avrebbe gravato per sempre sul mio cuore.

Era l’una passata quando presi la moto per andare a San Sebastián a cercare Tómas. Era una giornata calda, e il lungomare e la spiaggia erano pieni di gente. San Sebastián era una città tutta bianca, bellissima. Il terrorismo penalizzava l’economia delle Province Basche, ma a San Sebastián la crisi non si notava. La gente era ben vestita, i bar e i ristoranti del centro pullulavano di vita.

Mi fermai al bar preferito di Tómas per una Coca e uno spuntino. C’erano bocconcini di polipo, gamberetti con uova, sardine e pezzetti di prosciutto disposti su piccole fette di pane fresco. Ero in piedi al bancone e tenevo d’occhio la porta, così quando arrivò Tómas lo scorsi prima che lui vedesse me. Era poco più giovane di me, ma gli anni lo avevano trattato bene. Diceva sempre che il carcere era un’ottima ricetta per tenersi in forma: si faceva molto moto, il vitto era povero di grassi e gli alcolici non erano ammessi. Aveva il viso largo del padre, ma il suo corpo era snello, le mani affusolate. I capelli spruzzati di grigio e gli occhiali gli davano un’aria molto rispettabile. Si guadagnava da vivere sviluppando software per finanziarie e grandi aziende. Avevo conosciuto Tómas nel 1972, due anni prima che finisse in carcere e fosse condannato a morte dalla dittatura franchista per terrorismo. Qualcuno ci aveva presentato una sera a San Sebastián e avevamo incominciato a chiacchierare, trovandoci subito molto simpatici. Ero al corrente delle sue inclinazioni politiche, ma prima di leggere del suo arresto non avevo mai sospettato che fosse un membro dell’ETA. Ero andato a trovarlo in carcere, e quando era stato amnistiato insieme agli altri detenuti politici gli avevo dato una mano a ricominciare.

Il suo viso si illuminò in un sorriso quando mi vide, ci abbracciammo forte prima di passare nella stanza sul retro per pranzare insieme.

Chiesi una Coca, lui del vino. Chiacchierammo del più e del meno, evitando l’argomento del mio lutto: ne avevamo parlato più volte per telefono e sapevo che, benché fosse scapolo e senza figli, capiva perfettamente il mio dolore. Aveva perso molti amici durante gli anni di militanza nell’ETA. Considerava chiusa quell’esperienza e disprezzava la nuova generazione di attivisti, ma era pur sempre un basco e non sarebbe mai riuscito a denunciarli. Sapevo di potermi fidare di lui. A suo tempo aveva agito da mediatore segreto tra il governo socialista e l’ETA nel tentativo di trovare un compromesso. Ma il nuovo governo conservatore si rifiutava nel modo più assoluto di trattare con i terroristi e ultimamente gli episodi di violenza si moltiplicavano.

Dopo il caffè gli rivolsi la domanda che più mi stava a cuore:

«Tómas, sono stati loro a uccidere Amelia e Maria Luisa? È stato tutto un terribile errore?».

Mi accesi una sigaretta mentre lui, che aveva smesso di fumare, con le mani tormentava il tovagliolo.

«No, Peter» disse. «Non sono stati loro. Non sapevano che quella donna abitasse nel palazzo.»

«E allora chi è stato?»

«Non lo so. Non riesco a immaginare chi…»

«Se davvero non hanno colpa, perché non hanno negato la paternità dell’attentato?»

Abbassò lo sguardo e avvicinò la tazzina alle labbra, anche se del caffè non era rimasto che il fondo. Poi disse, sottovoce ma con rabbia, una rabbia rivolta contro se stesso:

«Lo scopo di ogni organizzazione terroristica è destabilizzare la società in cui opera alimentando uno stato di angoscia collettiva. La bomba di Plaza Santa Ana ha alzato il livello di tensione nel paese, un fatto assolutamente coerente con i loro obbiettivi. Perché avrebbero dovuto dissociarsene? Tutti credono che abbiano voluto colpire una spia, di conseguenza altri esiteranno prima di collaborare, perché l’ETA ha dimostrato che il braccio della vendetta è lungo».

Diceva cose sensate. L’ETA si era votata alla lotta armata a partire dal 1968, quando Tómas era poco più che adolescente. All’epoca, dopo un’azione, i militanti trovavano rifugio in Francia che, al pari di altri paesi europei, li considerava partigiani in lotta per una causa giusta: il capovolgimento della dittatura di Franco.

«Ho bisogno di sapere chi è stato e perché» dissi. «Altrimenti non riuscirò mai a farmene una ragione.»

«E se l’obbiettivo fosse stata la distruzione delle foto piccanti di quel politico? O forse al signor ministro non piace essere spiato e ha sentito il bisogno di vendicarsi…»

Scossi il capo. «Vorrei sentirmelo dire dai diretti interessati» dissi «che qui l’ETA non c’entra.»

«È una cosa molto rischiosa, Peter. Rischiosa per me, per te, per loro. L’ETA è divisa, i suoi capi sono impauriti, nervosi, aggressivi.»

«Aiutami, Tómas.»

Esitò in silenzio per qualche minuto, lo sguardo fisso sulla tazzina vuota. Infine sembrò decidersi, mi guardò un istante, si alzò e uscì dal ristorante. Io rimasi dov’ero, ordinai un altro caffè e pagai il conto. Tómas tornò dopo venti minuti. Non sapevo cosa avesse fatto, a chi avesse telefonato e non mi sarei mai sognato di domandarglielo.

Si sedette. Sudava come se avesse camminato troppo in fretta nella calura pomeridiana, ma il motivo poteva anche essere l’agitazione. Era un cittadino libero e rispettoso della legge, ma sapeva perfettamente che sia i servizi segreti spagnoli, sia i vecchi compagni lo avrebbero tenuto d’occhio fino alla fine dei suoi giorni. In fondo, la sua era la vita tormentata, inquieta e stressante di chi si trova tra due fuochi.

«Sulla panchina. Davanti all’ingresso pedonale del parcheggio sotterraneo vicino al Londres, alle venti. Avrai in mano una copia di “Diario Vasco”, edizione della sera» la sua voce era venata di nervosismo.

«Grazie, Tómas» dissi semplicemente. «Sono in debito con te.»

«Nessun debito» rispose. Ma dall’espressione del suo viso compresi che avevo appena testato i limiti della nostra amicizia. Forse aveva accettato di aiutarmi per Maria Luisa, per Amelia. Per gratitudine nei miei confronti, per sostenermi nel percorso travagliato del lutto. Oppure Tómas mi aveva mentito e chiedergli di mettermi in contatto con quei terroristi si sarebbe rivelato uno sbaglio fatale. Uscimmo in silenzio dal locale e ci salutammo con una stretta di mano, senza il calore del nostro incontro di poco prima. Svoltò l’angolo, lasciandomi solo nella strada svuotata dalla siesta.

Girovagai a lungo per la città. Camminare mi aiutò a scaricare la tensione. Passate le cinque, le viuzze diritte e strette del centro tornarono gradualmente a popolarsi, mentre le serrande dei negozi si alzavano schioccando come tanti petardi. Mi fermai a un’edicola per comprare una copia di «Diario Vasco». Alle otto meno un quarto ero seduto sulla panchina indicata. Alla mia destra c’era il municipio e alla mia sinistra l’Hotel Londres, dove avevo alloggiato diverse volte da giovane. In cima al Monte Egueldo troneggiava la statua del Cristo. Giù, oltre il lungomare, la marea si era ritirata scoprendo un vasto tratto di sabbia grigio-gialla. La gente faceva il bagno. Alcuni ragazzi giocavano a pallone, i loro strilli echeggiarono finché il sole non tramontò in un’orgia di rosso e il buio li costrinse a interrompere la partita. La striscia di spiaggia ormai quasi deserta lentamente si andava assottigliando con il risalire della marea.