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«Fottiti» ripetei irrigidendomi in vista del colpo che Testa Rasata puntualmente mi sferrò sulla mascella. Sentii il sapore del sangue e un secondo pugno mi colpì il fianco.

«Mister Lime» disse di nuovo quello con il manganello. «Non ti conviene. Continua a fare il duro e ti riduciamo da far schifo.»

«Non mi avete ancora detto che cosa volete» dissi con voce rauca.

«Oh, scusaci tanto, Lime. Vogliamo sapere dove hai nascosto una valigia contenente una foto o due che ci piacerebbe includere nel nostro album.»

«Non so di che cosa parli» ribattei. Il pelato mi si avventò contro con il pugno levato.

Quando rinvenni il sangue mi colava lungo una guancia e sul mento. Dal dolore che sentivo al torace sospettavo che mi avessero incrinato una costola. Avevo un orecchio gonfio, le labbra e un sopracciglio spaccati. Puntini luminosi danzavano davanti ai miei occhi e la mia maglietta era fradicia dell’acqua che mi avevano buttato in faccia per farmi rinvenire.

Avevano avvicinato la mia sedia al tavolo dove sedeva quello del manganello, percepivo la presenza degli altri due in piedi alle mie spalle. Mi avevano sciolto le mani, che erano quasi del tutto insensibili, ma adesso erano le mie caviglie a essere legate. Non riuscivo a staccare lo sguardo dalla bottiglia di whiskey da cui Manganello aveva appena versato due bicchieri, uno dei quali era colmo fino all’orlo. Il profumo di malto mi invase con un miscuglio di piacevoli ricordi e incubi orribili.

«Restiamo amici, Mister Lime. Facciamoci un bicchiere insieme» disse Manganello. Sorrise, ma i suoi strani occhi incolori erano freddi nel viso butterato.

«No» risposi.

«Invece sì, Lime. Un bicchierino amichevole.»

«Io non bevo» insistei.

«Da noi in Irlanda è una grossa scortesia, sì, quasi un’offesa, rifiutare il cicchetto offerto da un amico. Solo le donne e i froci qualche volta sono astemi. Avanti, Lime, non vorrai fare le figura della femminuccia!»

«Non bevo» ripetei, e con gesto brusco spazzai il bicchiere stracolmo oltre il bordo del tavolo. Il liquido si sparse sul legno marrone mentre il bicchiere andava in mille pezzi. Rimasi in attesa della solita reazione, ma lui scosse la strana testa troppo stretta per quel corpo massiccio, si alzò e andò alla credenza a prendere un altro bicchiere. Tornato al tavolo lo riempì a metà. Il rapato mi afferrò le braccia torcendole dietro lo schienale della sedia, mentre il suo compare con una mano mi rovesciava la testa all’indietro e con l’altra mi turava il naso.

Manganello si alzò e si avvicinò finché il bicchiere, con il suo contenuto dorato e irresistibile dominò il mio campo visivo. Mi versò un sorso in gola. Sapeva di fuoco e mi venne da vomitare, ma lui aspettò che riprendessi fiato, poi forzò di nuovo l’orlo bollente del bicchiere tra le mie labbra contuse. Non potevo fare a meno di inghiottire nonostante gli attacchi di tosse che mi scuotevano. Era come se ogni cellula del mio corpo si ribellasse ed esultasse allo stesso tempo, schiudendosi come un fiore per succhiare la rugiada. Nel mio cervello spuntò una bellissima luce bianca, i dolori del mio corpo si placarono come se mi avessero fatto un’iniezione di morfina.

Non toccavo alcolici da quasi otto anni. Prima di allora ero stato un forte bevitore per vent’anni. Generalmente ero riuscito a tenere la cosa sotto controllo, ma molti momenti della mia vita erano buchi nella memoria: giorni, settimane intere inghiottite da una sbornia. All’inizio Amelia lo aveva tollerato, anche se si era spaventata a morte la prima volta che mi aveva visto in quello stato. Ma alla nascita di Maria Luisa mi aveva messo di fronte a un ultimatum: dovevo scegliere, o la bottiglia, o loro due. Mi amava, ma ne lei né la bambina meritavano di assistere al lento processo della mia autodistruzione.

Andare al primo incontro degli Alcolisti Anonimi fu una delle decisioni più difficili della mia vita. Mi aggrappai al karate come a un’ancora di salvezza, perché spremendomi fisicamente riuscivo a tenere a bada il demone della bottiglia. Ma non potevo passare davanti a un bar senza sudare freddo. Poi pensavo ad Amelia e alla piccola e tiravo dritto. Dopo la loro morte, tante volte mi ero sentito sul punto di ricascarci, ma la promessa fatta ad Amelia fino a quel momento si era dimostrata più forte di qualunque tentazione.

L’uomo tornò a riempire il bicchiere e lo posò sul tavolo davanti a me. Fece un cenno col capo e gli altri mi liberarono le braccia e il naso. Prima che potesse parlare il mio braccio scattò e di nuovo il bicchiere volò per terra. Si ruppe con uno schianto, mentre il meraviglioso profumo del whiskey si spandeva in tutta la stanza.

Ma così non facevo altro che rimandare la sofferenza. Manganello andò a prendere un altro bicchiere, lo riempì, e la scena si ripeté. Il mio corpo cominciò a rilassarsi. Al terzo giro mi accorsi che inghiottivo avidamente il liquido brunodorato che poco prima avevo rifiutato. Avevo la testa sempre più leggera…

Manganello insistette finché al piacere e alla sonnolenza si mescolarono nausea e vertigini. Dopo un periodo di astinenza tanto lungo ero come un quindicenne alla prima birra.

Avevo di nuovo le braccia libere e, quando l’uomo tornò a posare il bicchiere pieno sul tavolo, allungai la destra per capovolgerlo. Ma era come se il mio arto avesse acquistato una volontà propria: osservai impotente la mia mano disubbidiente afferrare il bicchiere e avvicinarlo alle labbra con gesto lento e quasi voluttuoso. Il primo sorso mi avvolse la lingua come una morbida membrana e scivolò giù per l’esofago in una lunga carezza che dallo stomaco sgorgò nel sangue.

Mi vennero le lacrime agli occhi, lacrime di rabbia e di disprezzo per me stesso. Dovevo essere uno spettacolo ripugnante, sporco com’ero di sangue, lacrime e whiskey. Vuotai il bicchiere d’un colpo e lo posai bruscamente sul tavolo.

«Stronzi» dissi. «Fottuti bastardi!»

«Salute, Lime» ghignò Manganello prima di ingoiare il contenuto del proprio bicchiere. Poi riempì il mio per l’ennesima volta, sul volto un’espressione sprezzante e vittoriosa. Invece di scagliarglielo addosso presi il whiskey e me lo rovesciai in gola.

«Perché vi interessa quella valigia?» biascicai dal fondo di un crepuscolo alcolico in cui sogno e realtà incominciavano a confondersi.

«Le domande le facciamo noi. Tu sei quello che risponde» disse lui.

«Non sono altro che ricordi, bastardo! Dentro ci sono soltanto i miei miseri, insignificanti, fottuti ricordi!» gridai. «La mia fottutissima vita…»

Ormai ero completamente andato, ma ricordo confusamente di aver blaterato a ruota libera della mia valigia, di Amelia, Maria Luisa e Don Alfonso. Di Oscar, Gloria e Jacqueline Kennedy Onassis su un’isoletta greca. Era insieme a un’amica e le avevo seguite fino a una caletta appartata. Jackie aveva steso l’asciugamano, poi si era tolta i calzoncini e la blusa. Non portava il bikini e aveva cominciato a spalmarsi il corpo nudo di olio solare; io mi ero steso al riparo di una grossa roccia e avevo scattato la serie di foto che aveva reso Oscar e me milionari e l’Ospe News un’agenzia fotografica di fama mondiale.

Al termine della mia storia sull’incontro con Jackie e la svolta che aveva rappresentato per la mia carriera, Manganello mi afferrò un braccio e ringhiò:

«Non ci interessano le tette e i culi, Lime. Ci interessa la valigia. Vogliamo poter scegliere da soli le nostre foto preferite. Allora, dove diavolo è?»

Non ricordo di aver risposto alla sua domanda, eppure dovetti farlo, a giudicare da ciò che accadde in seguito.